Cenni biografici
Joseph Lemarchand nasce a Montauban-de Bretagne,
vicino Rennes, nel 1913 e sarà ordinato prete nel 1938. Impegnato con passione
a penetrare e a far conoscere sempre più la Parola che salva, realizza spazi
culturali e un “centro di rinascita spirituale”.
Dopo la morte della madre e un viaggio in India,
sempre più alla ricerca della trasparenza della Parola, chiede ed ottiene dal
cardinale Roques di abbandonare il ministero attivo e di dedicarsi interamente
alla scrittura. Comincerà a firmare i suoi scritti sotto lo pseudonimo di Jean
Sulivan e diverrà responsabile della collezione «Voies ouvertes» delle
edizioni Gallimard, che pubblicheranno la maggior parte dei suoi testi.
Sulivan è autore di romanzi, novelle, scritti
spirituali. La sua opera otterrà il “Prix Bretagne” nel 1976.
Morirà durante una delle sue quotidiane passeggiate a
piedi, travolto da un’automobile, il 16 novembre 1980.
Scrittura e itinerario di rinascita
I temi che intessono l’opera di Sulivan sono numerosi
e difficilmente districabili gli uni dagli altri. Ciò che interessa lo
scrittore è il cuore dell’esperienza umana e, nel centro dell’essere, anche gli
opposti coesistono.
Seguendo i suoi testi, si può tracciare un itinerario
che indica l’impegno di Sulivan a vivere e a far vivere al suo lettore un cammino
di riscoperta di sé. Le tappe più significative di tale itinerario sono:
a) lo stile dell’«erranza», ossia quella
consapevolezza di essere un «passante», un «vagabondo». Ed ogni
autentico itinerario è un cammino incessante. «Exi».
Compiuto un percorso e raggiunta una meta, occorre
ripartire per un nuovo deserto, sperimentando nel profondo «la voglia
di nascere ancora una volta»;
b) la coscienza che «la verità morta è peggiore
dell’errore». Sulivan constata che comunemente ci s’impegna, soprattutto nel
nostro Occidente, «a sapere, a prendere, a possedere», ma egli è
convinto che «ogni messaggio che non germina in una coscienza è morto»;
c) la consapevolezza di vivere nel «circo», nel
«teatro». Ciascuno, più o meno consapevolmente, si lascia rivestire di
ruoli, di maschere, tradendo la sua verità più intima, misconoscendo il suo
vero volto;
d) lo scopo dell’esistenza, secondo Sulivan, è
proprio di tirarsi fuori dal “circo”, di strapparsi la maschera, di
ringiovanire spiritualmente.
È l’esperienza del deserto. «Quel che conta
giunge sempre dopo un passaggio, un attraversamento». Già, occorre
andare al di là delle illusioni per ritrovare l’essenziale;
e) la forza di iniziare e proseguire l’itinerario di
liberazione si radica sulla speranza. E nell’opera di Sulivan la metafora
privilegiata per parlare di speranza è l’alba. È vero, viviamo immersi nella
menzogna, viviamo nel circo, nel teatro, nascosti dietro le nostre maschere,
ma occorre aver fiducia, perché, nonostante tutto, «c’è l’alba».
E si comincia ad essere. L’alba è questa possibilità concreta che tutto è
sempre possibile, che ogni giorno può cominciare qualcosa di assolutamente
nuovo. E la novità rivoluzionaria è un nuovo sguardo sulle cose, le
situazioni, le persone, «la creazione qui ed ora di un nuovo modo di
relazionarsi con gli altri»;
f) anche l’esperienza della fede, forse in modo ancora
più radicale, richiede un ritorno alla sorgente. Anche di Dio si è fatto un oggetto
da analizzare, da possedere, da vendere e svendere, e dunque Sulivan s’impegna
a ritornare alle sorgenti della Parola, per farla parlare dentro di sé e
riascoltare, nella libertà più profonda, «la voce del Galileo». Vuol
ritrovare «Dio al di là di Dio», ossia al di là di tutte le opinioni con
cui ci si è costruito un certo “volto” di Dio. E questo impone di abbandonare
tutti i conformismi e rituali, e di liberarsi di quella fede che si è
trasformata in ideologia, per rimettersi in cammino, radicati sulla Parola,
sulle tracce di Dio. Il Vangelo ha infatti, secondo Sulivan, qualcosa di
veramente essenziale da comunicare all’uomo di oggi: «Gesù Cristo, morto e
risuscitato, ci propone non una filosofia ma una salvezza»;
g) squarciato il velo delle illusioni e attraversato
il deserto, ecco che qualcosa emerge, «fa segno», interpella. Si
fa esperienza di una «voce» interiore, di un «mormorio leggero»,
di «quel quasi nulla che cambia il senso di tutto». La finestra aperta
sulla notte diviene esperienza di assenza-presenza; nel silenzio di tutto,
qualcosa ci fa segno, ci chiama. Nulla sembra cambiato, fatica e sfinitezza,
aridità e abbandono continuano a scardinare le profondità dell’essere, eppure
ecco che sboccia nel deserto interiore la consapevolezza che «dal fondo
della notte nascerà forse l’umile gioia».
La «gioia errante» di cui parla Sulivan
non è il raggiungimento di uno stato intoccabile di felicità, ma l’esperienza
profonda e certa, perché verificata sulla carne, che a ciascuno è data la
possibilità di «fare delle proprie ferite dei punti d’inserimento per le ali».
Buona sera professoressa, volevo sapere se lei saprebbe indicarmi ove reperire le poche traduzioni italiane dei saggi di Sulivan, dato che anche l'usato è letteralmente introvabile. Posseggo solo "Verità selvaggia" per ora.
RispondiEliminaGrazie
Alberto Tonin