17 febbraio 2014

Jean Sulivan, chi è




Cenni biografici

Joseph Lemarchand nasce a Montauban-de Bretagne, vicino Rennes, nel 1913 e sarà ordinato prete nel 1938. Impegnato con passione a penetrare e a far conoscere sempre più la Parola che salva, realizza spazi culturali e un  “centro di rinascita spirituale”.
Dopo la morte della madre e un viaggio in India, sempre più alla ricerca della trasparenza della Parola, chiede ed ottiene dal cardinale Roques di abbandonare il ministero attivo e di dedicarsi interamente alla scrittura. Comincerà a firmare i suoi scritti sotto lo pseudonimo di Jean Sulivan e diverrà responsabile della collezione «Voies ouvertes» delle edizioni Gallimard, che pubblicheranno la maggior parte dei suoi testi.
Sulivan è autore di romanzi, novelle, scritti spirituali. La sua opera otterrà il “Prix Bretagne”  nel 1976.
Morirà durante una delle sue quotidiane passeggiate a piedi, travolto da un’automobile, il 16 novembre 1980.


Scrittura e itinerario di rinascita

I temi che intessono l’opera di Sulivan sono numerosi e difficilmente districabili gli uni dagli altri. Ciò che interessa lo scrittore è il cuore dell’esperienza umana e, nel centro dell’essere, anche gli opposti coesi­stono.
Seguendo i suoi testi, si può trac­ciare un itinerario che indica l’impegno di Sulivan a vivere e a far vivere al suo lettore un cammino di riscoperta di sé. Le tappe più signifi­cative di tale itinerario sono:
a) lo stile dell’«erranza», ossia quella consapevolezza di essere un «passante», un «vagabondo». Ed ogni autentico itinerario è un cammino incessante. «Exi».
Compiuto un percorso e raggiunta una meta, occorre ripartire per un nuovo deserto, sperimentando nel profondo «la voglia di nascere ancora una volta»;
b) la coscienza che «la verità morta è peggiore dell’errore». Sulivan constata che comunemente ci s’impegna, soprattutto nel no­stro Occidente, «a sapere, a prendere, a possedere», ma egli è convinto che «ogni messaggio che non germina in una coscienza è morto»;
c) la consapevolezza di vivere nel «circo», nel «teatro». Ciascuno, più o meno consapevolmente, si lascia rive­stire di ruoli, di maschere, tradendo la sua verità più intima, misconoscendo il suo vero volto;
d) lo scopo dell’esistenza, se­condo Sulivan, è proprio di tirarsi fuori dal “circo”, di strapparsi la ma­schera, di ringiovanire spi­ritualmente.
È l’esperienza del deserto. «Quel che conta giunge sempre dopo un passaggio, un attraversamento». Già, occorre andare al di là delle illusioni per ritrovare l’essenziale;
e) la forza di iniziare e proseguire l’itinerario di liberazione si radica sulla speranza. E nell’opera di Sulivan la metafora privilegiata per parlare di speranza è l’alba. È vero, viviamo immersi nella menzogna, viviamo nel circo, nel teatro, nascosti dietro le no­stre maschere, ma occorre aver fidu­cia, perché, nonostante tutto,  «c’è l’alba». E si comincia ad essere. L’alba è questa possibilità concreta che tutto è sempre possibile, che ogni giorno può cominciare qualcosa di as­solutamente nuovo. E la novità rivo­luzionaria è un nuovo sguardo sulle cose, le situazioni, le persone, «la creazione qui ed ora di un nuovo modo di relazionarsi con gli altri»;
f) anche l’esperienza della fede, forse in modo ancora più radicale, richiede un ritorno alla sor­gente. Anche di Dio si è fatto un og­getto da analizzare, da possedere, da vendere e svendere, e dunque Sulivan s’impegna a ritornare alle sorgenti della Parola, per farla parlare dentro di sé e riascoltare, nella libertà più profonda, «la voce del Galileo». Vuol ritrovare «Dio al di là di Dio», ossia al di là di tutte le opinioni con cui ci si è costruito un certo “volto” di Dio. E questo impone di abbandonare tutti i conformismi e rituali, e di liberarsi di quella fede che si è trasformata in ideologia, per rimettersi in cammino, radicati sulla Parola, sulle tracce di Dio. Il Vangelo ha infatti, secondo Sulivan, qualcosa di veramente essen­ziale da comunicare all’uomo di oggi: «Gesù Cristo, morto e risuscitato, ci propone non una filosofia ma una sal­vezza»;
g) squarciato il velo delle illu­sioni e attraversato il deserto, ecco che qualcosa emerge, «fa segno», in­terpella. Si fa esperienza di una «voce» interiore, di un «mormorio leggero», di «quel quasi nulla che cambia il senso di tutto». La finestra aperta sulla notte diviene esperienza di assenza-presenza; nel silenzio di tutto, qualcosa ci fa segno, ci chiama. Nulla sembra cambiato, fatica e sfini­tezza, aridità e abbandono continuano a scardinare le profondità dell’essere, eppure ecco che sboccia nel deserto interiore la consapevolezza che «dal fondo della notte nascerà forse l’umile gioia».
La «gioia errante» di cui parla Sulivan non è il raggiungimento di uno stato intoccabile di felicità, ma l’esperienza profonda e certa, perché verificata sulla carne, che a ciascuno è data la possibilità di «fare delle pro­prie ferite dei punti d’inserimento per le ali».

1 commento:

  1. Buona sera professoressa, volevo sapere se lei saprebbe indicarmi ove reperire le poche traduzioni italiane dei saggi di Sulivan, dato che anche l'usato è letteralmente introvabile. Posseggo solo "Verità selvaggia" per ora.
    Grazie
    Alberto Tonin

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