19 febbraio 2014


insognare.malb@voila.fr

Ecco il libro, presentato in occasione della Festa per i miei 40 anni d'insegnamento = pensionamento.

Una "scrittura a oltre 50 mani": emozioni, suggestioni vissute INSIEME, nelle aule dell'Università di Palermo, dove nonostante lo squallore circostante, abbiamo, io e tanti studenti, vissuto momenti di crescita condivisa e di semplice e gioiosa creatività.



Un libro decisamente singolare, per tanti motivi.
Qui inserisco la premessa, le 4 introduzioni e il quasi-inizio.

*   *   *


Per cominciare


In occasione della mia scelta di lasciare l’Università (= di andare in pensione), volendo iniziare questa nuova tappa della mia vita con un incontro-festa, ho pensato di pubblicare un libro, ma, in continuità con il mio modo di vivere questi lunghi e stupefacenti quarant’anni di docenza, ho scelto di scrivere questo libro con i miei studenti di ieri e dell’altro ieri.
In momenti e su quaderni diversi cercavo di tradurre il senso di questa raccolta, il perché avevo deciso di dar vita a questo progetto e come pensavo di procedere per realizzarlo. Ma ogni volta che cominciavo a scrivere, venivano fuori delle briciole di possibili premesse, che esplicitavano solo alcune delle motivazioni che mi avevano spinto, più o meno consapevolmente, a dar forma a questo ‘libro insieme’.
Che fare? Dopo un iniziale disagio, la chiarezza. Mi sono detta: giacché questo non sarà un libro ‘universitario’ (d’altronde, in senso stretto, non ne ho mai scritti), non ci sarà neppure un’introduzione ‘normale’ = conforme a canoni ormai standardizzati.
Ho preferito pertanto non rielaborare in un unico testo razionalmente lineare quanto avevo fino a quel momento abbozzato. Mettere “in fila per tre[1] le parole non è poi, forse, tanto diverso dall’appiattire le persone, imprigionandole in schemi rigidamente sterili. E così i fogli si sono, quasi da soli, assemblati. Pertanto di introduzioni non ne troverete una soltanto, ma quattro o cinque.
Introduzioni? Motivazioni? Certamente degli squarci sul mio vissuto passato e recente, in riferimento a questo bizzarro journal, raccontato da parole – le mie – non pensate, ma sperimentate appassionatamente da 40 anni. E non solo le mie parole-ricordi.
Un po’ alla Sulivan [2], ho ‘lanciato’ la proposta ai miei studenti, perché ciò che andava prendendo forma sui miei fogli si mettesse ‘in connessione’ con altri ricordi, altre esperienze e con le personali risonanze di quanti, dopo aver partecipato ai miei corsi o seminari, avrebbero liberamente scelto di partecipare a questa nuova avventura, perché il percorso fosse tracciato a più mani.

Quel che leggerete nelle pagine che seguono dice qualcosa di quell’inesprimibile sorpresa dell’esserci, per chi si ritrova in movimento-cammino con qualcun altro, verso qualcos’altro.
Una parola, la nostra – quella di chi ha partecipato alla stesura di questo testo –, radicata nell’ieri, ma che ci apre ad un domani che già parla nell’oggi.
Sempre altro.
      Sempre oltre.
                                               =  =  =
Introduzione (prima)

Voglia di nascere ancora una volta.[3]


Tutte le favole cominciano con
C’era una volta…”.

In questo libro non è raccontata una favola, ma una storia vera. Una storia durata 40 anni, intessuta di/con molte, mille[4] altre storie. Pertanto la parola con cui voglio cominciare non è: C’era una volta e neppure due, ma C’è, sempre. Anche oggi.
C’è la possibilità di sperimentare, di condividere, di vedere, di sapere, di sentire che la vita merita di essere vissuta in ogni suo istante, perché… Quante valide motivazioni!
La vita, le persone, gli incontri. Quale ricchezza! Tutto è per noi, per la nostra crescita interiore, per la nostra liberazione, per vivere sempre più in pienezza la nostra esistenza, ma... Quale uso facciamo di quel che viviamo?
Negli anni, sempre più, ho sperimentato e compreso, con l’intuizione della mente e del cuore, che tutto è connesso, intimamente legato. Ho constatato che le distinzioni nette, le separazioni troppo intransigenti sono arbitrarie, i giudizi assoluti sempre temerari, le verità preconfezionate drammaticamente disumane.
Sì, ogni fase della nostra esistenza, ogni esperienza, ogni incontro può essere vissuto come un evento, un’occasione di rinascita, per una sempre rinnovata urgenza di condivisione.

E allora, oggi, per me, per Maria Antonietta, cosa c’è?
C’è… la pensione!
PLUF!!! non uno, due, ma mille pluF  plof  plaf!
Pensione. Un termine pesante, sovraccarico di molti-troppi sottosignificati: vecchiaia, malinconia, non-senso, fine-interruzione di qualcosa, anticamera della morte.
Maria Antonietta in pensione…Toh! Non avevo consapevolizzato che sarebbe accaduto anche a me, tanto ero divenuta una cosa sola col mio lavoro. In un diario di qualche anno fa annotavo: “Ma come farà Maria Antonietta a continuare ad essere Maria Antonietta senza essere più Maria Antonietta?” Inconscio preludio alla mia esperienza di pensionata.
E questa difficoltà da sormontare è giunta. Questa esperienza di una rinnovata consapevolezza della mia identità profonda, che non può risolversi nel mio essere insegnante, come neppure nel mio essere moglie, madre, nonna, scrittrice. E allora?
È giunta l’ora.
Come distaccare dalla mia persona una parte del mio fare, così intimamente collegato col mio essere, senza tradire la mia verità originaria, anzi accrescendone la consistenza?
Qualcuno, in questo periodo, pensando di ‘consolarmi’, mi ha detto: “Ma tu resterai sempre insegnante!” Già, è vero, anche l’insegnamento, almeno per come io l’ho vissuto, è una ‘vocazione’, dunque, parafrasando il versetto biblico: “Tu sei sacerdote per sempre[5] potrei affermare: “Io sono insegnante – o meglio ‘insognante’![6] per sempre”. Ma non è che questo mi aiuti molto, giacché, concretamente, forse non entrerò più in un’aula universitaria per tenere un corso. E allora, cosa c’è?
C’è la continuità. Fare cose diverse, ma con lo stesso spirito[7]. Da questa esigenza-verità nasce il libro che tenete fra le mani e l’incontro in cui verrà presentato: la scelta profonda, irrinunciabile di creare spazi di autentica condivisione, per sperimentare la gioia del noi, la ricchezza dello scambio, la meraviglia della diversità, il gusto di un oltre verso cui incamminarsi, nel rischio e nella fiducia, nel timore e nella responsabilità.

°  °  °
Concluso il mio percorso universitario, per iniziare una nuova tappa, non avrei potuto non fare un consuntivo. Ma la mia lettura dei dati, praticata in modo isolato, non sarebbe potuta risultare che parziale ed arbitraria.
Senza alcuna sofisticata e prudente riflessione ho avuto la chiarezza che non dovevo attraversare da sola l’ondata della pensione. Dovevo danzarci dentro con tutti coloro – o almeno alcuni – con i quali avevo già fatto indimenticabili traversate o anche solo qualche nuotata.
I compagni di quest’avventura non li ho scelti. Ho scritto con immediatezza una lettera-invito-partecipazione (inserita all’inizio della seconda parte di questo libro), per invitare i miei studenti a partecipare a questo nuovo progetto-insieme. Per posta elettronica, ho inviato il messaggio-invito a quei giovani di cui avevo memorizzato l’indirizzo nella mia rubrica. Dunque un invito al buio. Ma quanta luce è arrivata!
Come si evince dal testo della lettera (inserita all’inizio della seconda parte), non ho suggerito alcuna indicazione se non quella di esprimere, attraverso una qualsiasi modalità, la propria risonanza-ricordo della loro partecipazione ai miei corsi di letteratura francese.
Ho spedito il messaggio ad oltre un centinaio di indirizzi. Molti non hanno risposto; alcuni mi hanno scritto che avrebbero voluto partecipare, ma che erano troppo presi dal lavoro o dalla famiglia; altri ancora che non se la sentivano di esprimere le loro emozioni e ricordi. Una cinquantina hanno inviato un loro scritto, per partecipare alla stesura di questo libro, che nasce perché un’esperienza possa essere condivisa, arricchita dalla rilettura maturata da diversi protagonisti con differenti vissuti personali.

Questi flash-ricordi – i miei e quelli dei miei ex-studenti – sono una panoramica, ritengo più attendibile, sui miei quarant’anni d’insegnamento di Lingua e letteratura francese presso l’Università di Palermo.
Se è vero che le parole sono incapaci a tradurre la vita nella sua pienezza, è altresì innegabile che la parola è uno strumento privilegiato per fissare il vissuto e poterlo, in qualche modo, condividere, evitando un sempre pericoloso intimismo e farsi, insieme, spazio di accoglienza e di dono.

E allora ecco che c’è per Maria Antonietta: una nuova esperienza, la pensione, da vivere così come ho vissuto il mio insegnamento. Fuori dai rigidi perimetri dell’ufficialità, oltre ogni possibile chiusura in me stessa.
Malinconia, paura, isolamento? Nulla di tutto questo. È scaturita, in modo immediato, la voglia di creare, ancora una volta, un’occasione per rinsaldare antichi legami, ritrovando volti e persone, ed anche per stabilire nuove connessioni, con questa ulteriore esperienza di condivisione da vivere attraverso la scrittura.
Un libro da scrivere insieme, un incontro a cui dar forma. Un’altra occasione per ri-nascere.

C’è. E ci sarà. La speranza consiste nel credere che qualcosa c’è, che qualcos’altro ci sarà; che occorre andare sempre avanti, anche se non si sa verso dove, giacché dovremmo essere, sempre più consapevolmente, disponibili ad abbandonare il già conosciuto-posseduto, per incamminarci instancabilmente verso un oltre sempre da scoprire, verso un di-più ancora da vivere, scegliendo di condividere – almeno con qualcuno – quell’«incessante marche»[8] che fa di noi degli esseri autenticamente viventi.


Introduzione  (seconda)

Ritornate bambini

ritrovate lo spirito d’infanzia.[9]

«Il mondo muore per mancanza di spirito d’infanzia»[10],  affermava Bernanos e lo scriveva oltre 70 anni fa, fotografando profeticamente la nostra attualità. Il convincimento bernanosiano insiste su diversi livelli. Vorrei qui soffermarmi sull’aspetto relazionale.
Un bambino manifesta le sue emozioni in modo immediato e lineare: piange, urla, ride, cerca le coccole, regala baci e sorrisi in modo spontaneo, senza misure prudenziali o calcoli interessati.
Ma ‘i grandi’ hanno fretta di insegnar loro ‘le buone maniere’. Gli spiegheranno che non deve assolutamente dire alla zia, che gli tira le orecchie per farlo... crescere di statura: “Mi stai antipatica! E poi non mi toccare che mi fai male!”. Tenteranno di convincerlo che non è conveniente chiedere alla mamma un abbraccio supplementare prima di addormentarsi, perché questo lo fanno ‘i bimbi piccoli’; gli vieteranno di assaporare un cibo tastandolo con le mani (‘roba da selvaggi’) o di saltellare allegramente davanti alla tv, mentre loro, gli adulti, seriosamente stravaccati, vorrebbero seguire i soliti spettacolini, la cui insulsaggine è sconcertante.
Fin dai primi anni, invece che di educazione alla vita, alla creatività, alla semplicità, alla gioia, inizia per tutti (o quasi) un processo di ‘fossilizzazione’ della dimensione espressiva, che viene regolata da norme di comodo, da convenzioni spesso prive di senso e da ambigui utilitarismi che, più che formativi, si rivelano deformanti.
E tale sconcertante e disumano percorso si fa sempre più rovinoso. Spesso anche all’Università, luogo deputato alla formazione degli uomini e donne di domani, si assiste ad una reiterata ‘violenza sui maggiori’. Sì, si pratica la violenza quando ai ragazzi si strappano i sogni, quando si deride la speranza, quando li si costringe a sperimentare l’inutilità di coltivare le proprie personali passioni e competenze. E, in modo subdolo e incontrastato, si  diffonde, senza vaccini, il virus della «rinocerite»[11] ioneschiana = fanno tutti così.
Omologati nel conformismo della massa, per nulla interessati alla propria crescita interiore, ci si illude di vivere, storditi nelle mille cose da fare, maldestri nell’esprimersi, incapaci di una carezza, di una lode, di un segno semplice eppur ricco di calore fraterno.
Si ha paura di manifestare il proprio essere profondo, imprigionati nel reticolato di un ‘io’ spigoloso, glaciale, rifiutando il rischio di essere se stessi fino in fondo.

Siamo troppo abituati a raccontare e ad ascoltare episodi di violenza, di corruzione, d’ingiustizia, di alienante stupidità. Ma in questo mondo così inquietante vengono vissute innumerevoli esperienze pienamente e semplicemente umane, di cui si rischia di non saper nulla perché non vengono condivise, giacché non fanno audience.
Questo libro, tra l’altro, vuol essere uno spazio in cui raccogliere emozioni e ricordi da condividere, legati non tanto ad una persona, ma ad un’esperienza didattica che ha visto me e tanti studenti, in modi e tempi diversi, protagonisti insostituibili, intimamente connessi gli uni agli altri, quasi sempre senza neppure saperlo.
In un momento così delicato di trasformazione dell’Università e della società a tutti i livelli, queste pagine possono essere lette come un segno di speranza, per ricordarci che occorre riappropriarsi dei valori su cui fondare un’autentica cultura, sperimentata come confronto, condivisione, dialogo, rispetto dell’alterità, dignità  dell’esistenza umana e del valore unico di ogni persona.
Vogliamo continuare a credere che anche l’impossibile può diventare possibile, se si tiene accesa la lampada della speranza.
Se si sceglie di vivere nel rispetto di tutto ciò che è, nell’attenzione fedele al bene di tutti, è/sarà possibile ancora dire, comunque e dovunque, anche nell’università: «Yes, we can».

 =  =  =

Introduzione (terza)

 È facile disperdersi nel mondo
 e dimenticare la nostra connessione con lo spirito.
Eppure, senza tale legame, siamo solo dei morti viventi.
Sobonfu Somé


    C’è il grosso rischio, quando fa molto freddo, di sentire più freddo, perché tutti battono i denti, s’imbacuccano fino al naso e continuano a ripetere che “si muore di freddo”. Così come quando c’è caldo, si rischia di sentirsi soffocare, perché tutti si sventolano, sudano e si lamentano: “Uffa! si muore di caldo!”
Che caldo! Che freddo! Oggi, poi, tutti e a tutte le ore non fanno che ripetere: “Che crisi!”
Certo non si può negare che viviamo immersi nel caos-crisi in ogni ambiente e a tutti i livelli. Ma se continuiamo a dire “che freddo!”, che caldo!”, che crisi!” nulla mai cambierà e non faremo che aggiungere un tassello alla «bêtise»[12] galoppante.
E allora, «coraggio e al lavoro»![13]
Viviamo in un contesto dominato dalla ricerca del profitto e del piacere, a costo di tutto, lasciandoci centrifugare da un ritmo disumano che ci toglie il gusto delle cose ‘vere’, quelle capaci di donare una gioia profonda, ma che, secondo la logica dominante, non ‘valgono nulla’, sono senza importanza.
Come non citare Bernanos?

Le piccole cose sembrano senza valore, ma danno la pace. Sono come i fiori dei campi. Li si crede senza fragranza, e tutti insieme profumano l'aria.[14]
   Come non citare Ionesco?

Se non si capisce l’utilità dell’inutile, l’inutilità dell’utile, non si capisce l’arte; e un paese in cui non si capisce l’arte è un paese di schiavi o di robot, un paese di infelici, di gente che non ride né sorride, un paese senza spirito.[15]

Un mondo governato da rigide logiche di mercato non può che produrre trafficanti, schiavi, mercanti. È un mondo ‘vecchio’, raggrinzito, senza brecce, senza colori. Un mondo senza poesia.[16]

E Sulivan, come non ascoltare la sua parola?

Cambiare il ciclo delle fatiche in resurrezione, lasciare le immagini dispiegarsi. Aspettare, soffrire il vuoto, aspettare ancora, occuparsi di piccoli niente...[17]

Ma se è vero come è vero che ciò che caratterizza la persona umana è la sua libertà profonda, allora occorre impegnarsi – e attivamente – perché la novità dell’amore non cessi di generare i suoi frutti profumati.
 
        Abbiamo conquistato il cielo come gli uccelli

        e il mare come i pesci,
        ma dobbiamo imparare di nuovo il semplice 
        gesto di camminare sulla terra come fratelli.[18]

Ma per riappropriarsi del gusto delle cose semplici, del sapore delle relazioni ‘fraterne’, per sperimentare lo stupore dinanzi a ciò-che-è occorre ritrovare l’essenziale, ciò che è «invisibile agli occhi», come lucidamente affermava A. de Saint-Exupéry.
Da una società godereccia e arruffona, ingiusta ed arrogante, forse senza neppure accorgercene, ci siamo lasciati derubare del mistero, senza il quale l’uomo non può che essere infelice. Ci siamo lasciati derubare della dimensione del sacro (non inteso nella sua accezione limitante di ‘religioso’ = legato ad una religione). Svuotate della loro dimensione di sacralità, cose e persone divengono ‘intercambiabili’[19], prive di un significato unico e prezioso; ed è forse proprio qui che si radica la mentalità dell’usa e getta.
Bisognoso del mistero, del sacro, del divino, desideroso di uno spazio che sia immenso e di un tempo che sia eterno, l’uomo che vuole «tutto e per sempre», come affermava M. de Unamuno, non può sanare la sua inquietudine accontentandosi di beni effimeri. Da qui l’urgenza del reseat. Già, è necessario ripulire mente e cuore da tutto ciò che è inessenziale, fare spazio dentro di noi per vivere ed accrescere la propria dimensione spirituale, sganciati dalla quale non possiamo che essere tristi e smarriti. Privati dell’aspirazione al l’infinito, al divino, siamo mortificati nelle nostre aspettative più profonde. Rischiamo di diventare dei cadaveri ambulanti, dei morti travestiti da viventi. «Vivete mentre siete vivi!»[20]
E allora: Tutto fuori per il satori![21]
Già, occorre eliminare tutto quanto ci appesantisce, ci riempie, intasa il nostro essere profondo e ci imprigiona, ci rende inospitali, incapaci di accoglienza e di riconoscenza.
Dobbiamo scegliere di svegliarci da quel torpore spirituale che ci mummifica, che ci rende privi di creatività, incapaci di comunicare autenticamente. Aborti di uomini e donne, che non sanno più guardare l’altro, perché sganciati dall’Altro.

Occorre, prima di tutto, ridonare all’uomo la sua dimensione spirituale.[22]

                                              =  = =

Introduzione  (quarta)

Tu sei rete di relazioni e nient’altro.
E tu esisti per i tuoi legami.[23]

Nell’era della comunicazione, mentre ciascuno s’illude di gestire una vertiginosa rete di contatti, è facilmente verificabile, nel vissuto quotidiano, un malessere diffuso che assume diversi volti. Se fosse la crisi economica l’unica causa della non-gioia, allora i ricchi dovrebbero essere soddisfatti. Ma a parte le risate più o meno sguaiate e gli: Ok, tutto a posto!, il malessere trasuda dagli sguardi spenti e da un individualismo sfrenato. Pessimismo e disincanto, nervosismo, depressione, ostentazione e tracotanza: questo ed altro ancora si legge nei comportamenti  e nel linguaggio.
L’uso smodato del cellulare per dirsi e mostrarsi sempre in contatto col mondo intero; la squallida oscenità dilagante nelle strade, sui giornali, in tv; la violenza manifesta ed occulta, che s’insinua in ogni interstizio del nostro quotidiano, così come negli spettacoli, nei dialoghi comuni privati e pubblici e perfino nei giocattoli e nei cartoon rivolti ai bambini non sono che alcuni sintomi comportamentali tristemente rivelatori di una disumana esperienza di forzata solitudine.
La persona, che si caratterizza proprio per il suo ‘essere relazionale’, si accorge di non entrare in comunicazione autentica con gli altri e dunque si sperimenta sola. Triste e sola.
Finisce un incontro, una lezione, una conferenza, una predica. Si conclude una telefonata. Si ritorna a casa dopo una cosiddetta festa e ci si sente più soli di prima.
Davvero raro incontrare dei veri amici, ossia persone gioiose di stare insieme gratuitamente e che, nel pieno rispetto delle loro diversità, sono disponibili a dirsi e a darsi nella pienezza del loro sentire, senza restrittive misure prudenziali.
Ancora più raro incontrare chi sceglie di vivere delle relazioni ‘fraterne’, nella scelta consapevole di volersi ‘prender cura[24], di sentirsi, in certa misura ‘responsabile[25] dell’altro, di saperlo e volerlo accogliere nella totalità della sua persona, limiti e sofferenza compresi.
Sull’urgenza di una comunicazione autentica con le persone e con la realtà ho impostato il mio studio, il mio insegnamento e i libri che ho scritto.
A quoi bon? A che serve leggere, scrivere, studiare se questo non aiuta a penetrare nel mistero del mondo, degli altri, nel profondo di sé?
A che serve insegnare, se non per sollecitare il gusto del dialogo, della relazione con/verso, la liberante scoperta di essere se stessi e dunque di esprimere in semplicità le proprie emozioni, paure, sogni, delusioni, attese?
A che serve accumulare titoli accademici, moltiplicare le pubblicazioni e gli impegni, fare ‘un sacco di cose’, se poi non c’è più nella persona né lo spazio né il tempo di accogliere ciò che è altro-da-sé, di contemplare con stupore l’Altro?
Rinchiusi nel reticolato del proprio miserrimo ‘io’, ci si lascia svuotare della propria creatività, ci si lascia riempire da illusorie apparenze. L’effimero intesse il vissuto quotidiano.
                           apparire  apparire  apparire.
À quoi bon?
Emerge l’urgenza di ritrovare l’essenziale. Rifiutarsi di vivere come automi e appassionarsi a ritrovare il senso di ciò che è, di ciò che si fa, si dice, di ciò che si è.
Radicarsi nel mistero di un Dio che ci libera da un ‘io’ avido e senza futuro e ci dilata ad uno spazio immenso e ci sconfina in un tempo eterno.
Riscoprirsi bisognosi di un ‘tu’ per dar vita ad un noi, capace di sempre nuove ed inimmaginabili creazioni.
esistere   resistere   consistere

Questo libro è un’ulteriore occasione per stracciare i perbenismi di facciata, le convenzioni passivamente accolte e creare uno spazio per esserci, in gioiosa semplicità.
Già tre volte, durante il mio insegnamento universitario, ho proposto ai miei studenti una ‘scrittura insieme’.

1. In occasione di un corso sulla poesia (1993-1994). Finite le lezioni, abbiamo letto e selezionato le elaborazioni prodotte da quanti avevano scelto di partecipare e le abbiamo raccolte in un libro, insieme ad alcune tracce di riflessione ed analisi dei testi che avevo proposto in classe come piste di lavoro.

2. Per ricordare Eugène Ionesco. Ad un anno dalla sua morte, ho organizzato un incontro-lezione-spettacolo (28 marzo 1995), durante il quale la mia esposizione (una non-conferenza) era supportata da scene teatrali tratte dalle opere studiate e drammatizzate da alcuni studenti. Su quell’esperienza nasceva la Compagnia Universitaria ed un libro: Un fiore per Ionesco in cui, oltre alla mia lezione-presentazione, abbiamo raccolto le risonanze scritte dagli studenti-attori e dal pubblico che aveva condiviso con noi quell’insolita ‘lezione ioneschiana’.

3. per dedicare al piccolo Alessio una raccolta di favole, scritte da noi della Compagnia, in omaggio a Rossana, ‘la farfalla dai capelli rossi’, di cui potrete leggere nel mio Briciolario.[26]
L’esito positivo di queste tre pubblicazioni mi ha, forse inconsapevolmente, sollecitato a dar forma a questo testo. Un nuovo ‘libro insieme’. Ma fin dall’inizio era chiaro che non poteva trattarsi di mera ripetizione. D’altronde il mio innato orrore per la copia e la fotocopia me lo avrebbe impedito.
Per i partecipanti al progetto-libro, scrivere era ancora più difficile, giacché si trattava di esprimersi sui corsi svolti dalla prof e sul suo modo di ‘fare lezione’.
Ma la difficoltà non riguardava soltanto i miei ex studenti. Io stessa provavo un forte disagio a parlare di me, della mia esperienza d’insegnante. All’inizio, continuavo a pensare che il libro avrebbe dovuto far emergere una modalità d’insegnamento ed eventualmente i valori su cui essa si radicava, ma non mai parlare di Maria Antonietta La Barbera. Io dovevo essere assente (o quasi).
La conseguenza: penna in mano e foglio bianco. Come parlare della mia esperienza, nella quale mi ero immersa e identificata per 40 anni senza parlare di me? Ma la parola di Ionesco mi riecheggiava dentro. Dai suoi denigratori accusato di vanagloria e di un’ossessiva voglia di ostentazione, Ionesco si difendeva affermando che ciascuno non può, in fondo, che parlare di sé, anche se parla d’altro e che il proprio microcosmo non è che uno spaccato del macrocosmo universale; pertanto le paure, le illusioni, le speranze del singolo sono quelle di ogni persona.
E poi, «nell’amore non c’è paura».[27]
Tutte le ‘stranezze’, vissute e proposte dentro e fuori le aule, sono sempre nate nell’urgenza di sollecitare gli studenti a ritrovare la loro identità più vera, la loro bellezza profonda, per riappropriarsi dei loro sogni e valorizzare la loro dimensione creativa. E così anche questo libro.
E allora via! Si comincia.
Senza falsi pudori, in semplicità, ecco alcuni cocci della mia avventura universitaria, ricostruiti da me e da quanti, fra i miei studenti, hanno scelto di raccontare qualche frammento della mia storia d’insognante, attraverso la loro esperienza, i loro ricordi ed emozioni.
Una raccolta di lettere, messaggi, aneddoti che, legati insieme alle mie ‘memorie in briciole’, rendono il racconto di questa esperienza più vero, meno soggettivo. Certamente più ricco e, comunque, semplicemente umano.
  
*   *   *  

E adesso silenzio, che la lezione... non comincia

Ammesso che una lezione, nel senso tradizionale, io l’abbia mai cominciata... O forse sì.
Già, perché in classe, almeno negli ultimi decenni, non an­davo esclusivamente per fare lezione (nel senso di insegnare una disciplina), ma per incontrare delle persone, per farle in­contrare tra loro, per comunicare l’importanza della lettura, l’utilità e la meraviglia della scrittura, per far scoprire ai giovani che incontravo di quante cose fossero capaci, spesso senza esserne consapevoli.
Volevo far intravedere il segreto nascosto nei libri e aiutarli a scoprire che la letteratura non è una materia da studiare o da capire, piuttosto un immenso patrimonio in cui ritrovare esperienze umane, elaborazioni concettuali, realizza­zioni artistiche affascinanti, capaci di suscitare stupore e vo­glia di vivere e di condividere.
Volevo far loro sperimentare che tutto – e dunque anche una lezione universitaria – può essere vissuta in modo diverso, in modo “umano”. E che l’esito non può essere determinato in modo meccanico dal contesto esteriore.
Se è vero che siamo esseri ‘liberi’, in qualche modo, in certa misura, possiamo e dobbiamo scrivere noi la nostra storia, allenandoci a «innestare le ali nelle nostre ferite» (J. Sulivan).
Ci sarò riuscita? Non importa saperlo.
Ho imparato a credere che ciò che conta non sono i risultati immediati, ma ciò che hai seminato o meglio l’entusiasmo e l’amore che hai messo nel seminare, la passione che hai spe­rimentato nel parlare e nel voler creare spazi di silenzio e d’incontro, per dar vita ad un’esperienza sempre nuova di confronto, di dialogo, di condivisione.
Spero pertanto, anzi credo, che qualche aiuola fiorita – e chissà ma­gari qualche albero – germinerà da qualche parte, in questo no­stro mondo oggi sempre più desertificato...
Speranza e certezza, le mie, radicate in una paziente pazienza verso me stessa, verso le mie inevitabili ed innumerevoli debolezze. Ma Sulivan mi ha insegnato a «cantare la gloria dei limiti».
Immaginate dunque... quanti canti nelle mie giornate!

                                                                         vostra insognante









NOTE

[1]
In fila per tre è una canzone di Edoardo Bennato, che ha animato un riuscito incontro-spettacolo dedicato a Ionesco, dal titolo Chi è? (1997) e messo in scena dalla Compagnia Universitaria.
[2] «Je jette des mots au-devant pour qu’ils me tirent. Il faudra bien un jour les suivre». J. Sulivan, Joie errante, Paris, Gallimard, 1974, p.11. Jean Sulivan è uno scrittore di cui mi occupo da una ventina d’anni e che ho spesso proposto durante i miei corsi.
 [3]  «Envie de naître encore une fois». J. Sulivan, Joie errante, cit., p. 281.[4] Parlare di 1000 storie potrebbe apparire ‘esagerato’. Ma, una volta tanto, voglio fare i conti: 40 anni; una media di 2 corsi l’anno (in certi anni, questi ultimi in particolare, ne ho tenuto anche 5); una media di 25 studenti per corso (senza considerare le classi di centinaia di ragazzi!) = 2 x 25 x 40 = 2000. Dunque non ho esagerato, anzi!
[5] Salmo 110, 4.
[6]  Mi riferisco al neologismo che dà il titolo a questo libro e di cui indico l’origine ed il significato nella legenda inserita alla fine del testo.
[7] «Lasciare Dio per Dio». Questa frase, credo di san Vincenzo de’ Paoli, e comunque sperimentata da tutti coloro che, radicati nell’amore di Dio, hanno vissuto la loro esistenza nell’attenzione all’altro, ha sempre più guidato le mie scelte quotidiane.
[8] Espressione ricorrente nella scrittura di J. Sulivan.
[9] «Redevenez vous-mêmes des enfants, retrouvez l’esprit d’enfance». G. Bernanos, Les Grands Cimetières sous la lune, in Essais et écrits de combat, I,  Bibliothèque de La Pléiade, Paris, Gallimard, 1971, p. 516. Cfr. Vangelo di Matteo, 18, 3: «Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli».
[10] «J’ai toujours pensé que le monde moderne péchait contre l’esprit de jeunesse, et que ce crime le ferait mourir». G. Bernanos, Les Grands Cimetières sous la lune, cit., p. 531.
[11] La metafora ioneschiana degli uomini trasformati in rinoceronti è stata spesso oggetto di studio e riflessione durante i corsi in cui ho proposto il Teatro dell’assurdo.
[12] Il tema della ‘stupidità umana mi ha sempre affascinato; l’ho proposto durante i corsi, attraversando i testi di Pascal, Flaubert, Jarry, Péguy, Bernanos, Ionesco.
[13] Dal profeta Aggeo 2, 4.
[14] «Les petites choses n’ont l’air de rien, mais elles donnent la paix. C’est comme les fleurs des champs. On les croit sans parfum, et toutes ensemble, elles embaument.» G. Bernanos,  Journal d’un curé de campagne, in Œuvres romanesques, Bibliothèque de La Pléiade, Paris, Gallimard, 1961, p. 1191.
[15] «Si on ne comprend pas l’utilité de l’inutile, l’inutilité de l’utile, on ne comprend pas l’art; et un pays où on ne comprend pas l’art est un pays d’esclaves et de robots, un pays de gens malheureux, un pays de gens qui ne rient pas ni ne sourient, un pays sans esprit». E. Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallimard, 1966, p. 215.
[16] «Poesia / è rifare il mondo, dopo / il discorso devastatore / del mercadante». D. M. Turoldo.
[17] «Changer le cycle des fatigues en résurrection, ne pas empêcher la mélodie qui élargit le silence, laisser se déplier les images. Attendre, souffrir le vide, attendre encore, s’occuper à des riens». J. Sulivan,  Mais il y a la mer,  Paris, Gallimard, 1964,  p. 21.
[18]  La frase è di Martin Luther King.
[19]  Esemplari, a questo proposito, i personaggi-fantoccio ioneschiani.
[20] «Vivez tant que vous êtes vivants». J. Sulivan, Bloc-notes,  s.o.s., Paris, 1986, p.121.
[21] Satori = oltre i confini dell’Io. Nel Buddismo Zen, indica l’esperienza del risveglio in senso spirituale; comprensione, illuminazione profonda.
[22] «Il faut d’abord et avant tout respiritualiser l’homme». G. Bernanos, La Liberté, pour quoi faire ? in Essais et écrits de combat, II, Bibliothèque de La Pléiade, Paris, Gallimard, 1995, p. 112.
[23] «Tu es nœud de relations et rien d’autre. Et tu existes par tes liens». A. de Saint-Exupéry, Citadelle, cap. CXCIV.
[24]  Il “prendersi cura” responsabilmente dei giovani è il dinamismo su cui si fonda la spiritualità salesiana, vissuta da Giovanni Bosco e Maria Domenica Mazzarello.
[25] Come non citare le sapienti parole del Piccolo Principe: «Io sono responsabile della mia rosa»? Significativa metafora, capace di suggerire il senso ed il significato di ogni esistenza umana che valga la pena di essere vissuta.
[26] Briciolario = non ho inserito questo termine per una sterile voglia di proporre una sfilata di neologismi, piuttosto perché mi pare che il termine suggerisca eloquentemente la pochezza di quanto qui raccontato rispetto alla ricchezza di quanto vissuto.
[27] Prima Lettera di Giovanni 4, 18.

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