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Ecco il libro, presentato in occasione della Festa per i miei 40 anni d'insegnamento = pensionamento.
Una "scrittura a oltre 50 mani": emozioni, suggestioni vissute INSIEME, nelle aule dell'Università di Palermo, dove nonostante lo squallore circostante, abbiamo, io e tanti studenti, vissuto momenti di crescita condivisa e di semplice e gioiosa creatività.
Un libro decisamente singolare, per tanti motivi.
Qui inserisco la premessa, le 4 introduzioni e il quasi-inizio.
* * *
Per cominciare
In occasione della mia scelta di lasciare l’Università
(= di andare in pensione), volendo
iniziare questa nuova tappa della mia vita con un incontro-festa, ho pensato di
pubblicare un libro, ma, in continuità con il mio modo di vivere questi lunghi
e stupefacenti quarant’anni di docenza, ho scelto di scrivere questo libro con
i miei studenti di ieri e dell’altro ieri.
In momenti e su quaderni diversi cercavo di tradurre
il senso di questa raccolta, il perché avevo deciso di dar vita a questo
progetto e come pensavo di procedere per realizzarlo. Ma ogni volta che cominciavo a scrivere, venivano fuori delle
briciole di possibili premesse, che esplicitavano solo alcune delle motivazioni
che mi avevano spinto, più o meno consapevolmente, a dar forma a questo ‘libro insieme’.
Che fare? Dopo un iniziale disagio, la chiarezza. Mi sono
detta: giacché questo non sarà un libro ‘universitario’ (d’altronde, in senso
stretto, non ne ho mai scritti), non ci sarà neppure un’introduzione ‘normale’
= conforme a canoni ormai standardizzati.
Ho preferito pertanto non rielaborare in un unico
testo razionalmente lineare quanto avevo fino a quel momento abbozzato. Mettere
“in fila per tre”[1] le
parole non è poi, forse, tanto diverso dall’appiattire le persone, imprigionandole
in schemi rigidamente sterili. E così i fogli si sono, quasi da soli,
assemblati. Pertanto di introduzioni non ne troverete una soltanto, ma quattro
o cinque.
Introduzioni? Motivazioni? Certamente degli squarci
sul mio vissuto passato e recente, in riferimento a questo bizzarro journal, raccontato da parole – le mie –
non pensate, ma sperimentate appassionatamente da 40 anni. E non solo le mie
parole-ricordi.
Un po’ alla Sulivan [2], ho ‘lanciato’
la proposta ai miei studenti, perché ciò che andava prendendo forma sui miei
fogli si mettesse ‘in connessione’ con altri ricordi, altre esperienze e con le
personali risonanze di quanti, dopo aver partecipato ai miei corsi o seminari,
avrebbero liberamente scelto di partecipare a questa nuova avventura, perché il
percorso fosse tracciato a più mani.
Quel che leggerete nelle pagine che seguono dice
qualcosa di quell’inesprimibile sorpresa dell’esserci, per chi si ritrova in
movimento-cammino con qualcun altro, verso qualcos’altro.
Una parola, la nostra – quella di chi ha partecipato
alla stesura di questo testo –, radicata nell’ieri, ma che ci apre ad un domani
che già parla nell’oggi.
Sempre altro.
Sempre oltre.
Introduzione (prima)
Voglia di nascere ancora una volta.[3]
Tutte le favole cominciano con
“C’era una volta…”.
In questo libro non è raccontata una favola, ma una
storia vera. Una storia durata 40 anni, intessuta di/con molte, mille[4] altre
storie. Pertanto la parola con cui voglio cominciare non è: C’era una volta e neppure due, ma
C’è, sempre. Anche oggi.
C’è la possibilità di sperimentare, di condividere, di
vedere, di sapere, di sentire che la vita merita di essere vissuta in ogni suo istante,
perché… Quante valide motivazioni!
La vita, le persone, gli incontri. Quale ricchezza!
Tutto è per noi, per la nostra crescita interiore, per la nostra liberazione,
per vivere sempre più in pienezza la nostra esistenza, ma... Quale uso facciamo
di quel che viviamo?
Negli anni, sempre più, ho sperimentato e compreso,
con l’intuizione della mente e del cuore, che tutto è connesso, intimamente
legato. Ho constatato che le distinzioni nette, le separazioni troppo
intransigenti sono arbitrarie, i giudizi assoluti sempre temerari, le verità
preconfezionate drammaticamente disumane.
Sì, ogni fase della nostra esistenza, ogni esperienza,
ogni incontro può essere vissuto come un evento, un’occasione di rinascita, per
una sempre rinnovata urgenza di condivisione.
E allora, oggi, per me, per Maria Antonietta, cosa c’è?
C’è… la pensione!
PLUF!!! non uno, due, ma mille pluF plof plaf!
Pensione. Un termine pesante, sovraccarico di
molti-troppi sottosignificati: vecchiaia, malinconia, non-senso, fine-interruzione
di qualcosa, anticamera della morte.
Maria Antonietta in pensione…Toh! Non avevo
consapevolizzato che sarebbe accaduto anche a me, tanto ero divenuta una cosa
sola col mio lavoro. In un diario di qualche anno fa annotavo: “Ma come farà Maria Antonietta a continuare
ad essere Maria Antonietta senza essere più Maria Antonietta?” Inconscio
preludio alla mia esperienza di pensionata.
E questa difficoltà da sormontare è giunta. Questa esperienza
di una rinnovata consapevolezza della mia identità profonda, che non può
risolversi nel mio essere insegnante, come neppure nel mio essere moglie,
madre, nonna, scrittrice. E allora?
È giunta l’ora.
Come distaccare dalla mia persona una parte del mio
fare, così intimamente collegato col mio essere, senza tradire la mia verità originaria,
anzi accrescendone la consistenza?
Qualcuno, in questo periodo, pensando di ‘consolarmi’,
mi ha detto: “Ma tu resterai sempre
insegnante!” Già, è vero, anche l’insegnamento, almeno per come io l’ho
vissuto, è una ‘vocazione’, dunque, parafrasando il versetto biblico: “Tu sei sacerdote per sempre”[5]
potrei affermare: “Io sono insegnante –
o meglio ‘insognante’![6] – per sempre”. Ma non è che questo mi
aiuti molto, giacché, concretamente, forse non entrerò più in un’aula
universitaria per tenere un corso. E allora, cosa c’è?
C’è la continuità. Fare cose diverse, ma con lo stesso
spirito[7]. Da
questa esigenza-verità nasce il libro che tenete fra le mani e l’incontro in
cui verrà presentato: la scelta profonda, irrinunciabile di creare spazi di autentica
condivisione, per sperimentare la gioia del noi,
la ricchezza dello scambio, la meraviglia della diversità, il gusto di un oltre verso cui incamminarsi, nel
rischio e nella fiducia, nel timore e nella responsabilità.
° ° °
Concluso il mio percorso universitario, per iniziare
una nuova tappa, non avrei potuto non fare un consuntivo. Ma la mia lettura dei
dati, praticata in modo isolato, non sarebbe potuta risultare che parziale ed
arbitraria.
Senza alcuna sofisticata e prudente riflessione ho
avuto la chiarezza che non dovevo attraversare da sola l’ondata della pensione. Dovevo danzarci dentro con tutti coloro –
o almeno alcuni – con i quali avevo già fatto indimenticabili traversate o
anche solo qualche nuotata.
I compagni di quest’avventura non li ho scelti. Ho
scritto con immediatezza una lettera-invito-partecipazione (inserita all’inizio
della seconda parte di questo libro), per invitare i miei studenti a
partecipare a questo nuovo progetto-insieme.
Per posta elettronica, ho inviato il messaggio-invito a quei giovani di cui avevo
memorizzato l’indirizzo nella mia rubrica. Dunque un invito al buio. Ma quanta
luce è arrivata!
Come si evince dal testo della lettera (inserita
all’inizio della seconda parte), non ho suggerito alcuna indicazione se non
quella di esprimere, attraverso una qualsiasi modalità, la propria
risonanza-ricordo della loro partecipazione ai miei corsi di letteratura
francese.
Ho spedito il messaggio ad oltre un centinaio di
indirizzi. Molti non hanno risposto; alcuni mi hanno scritto che avrebbero
voluto partecipare, ma che erano troppo presi dal lavoro o dalla famiglia; altri
ancora che non se la sentivano di esprimere le loro emozioni e ricordi. Una
cinquantina hanno inviato un loro scritto, per partecipare alla stesura di
questo libro, che nasce perché un’esperienza possa essere condivisa, arricchita
dalla rilettura maturata da diversi protagonisti con differenti vissuti personali.
Questi flash-ricordi – i miei e quelli dei miei ex-studenti
– sono una panoramica, ritengo più attendibile, sui miei quarant’anni
d’insegnamento di Lingua e letteratura francese presso l’Università di Palermo.
Se è vero che le parole sono incapaci a tradurre la
vita nella sua pienezza, è altresì innegabile che la parola è uno strumento
privilegiato per fissare il vissuto e poterlo, in qualche modo, condividere,
evitando un sempre pericoloso intimismo e farsi, insieme, spazio di accoglienza
e di dono.
E allora ecco che c’è per Maria Antonietta: una nuova
esperienza, la pensione, da vivere così come ho vissuto il mio insegnamento.
Fuori dai rigidi perimetri dell’ufficialità, oltre ogni possibile chiusura in
me stessa.
Malinconia, paura, isolamento? Nulla di tutto questo. È
scaturita, in modo immediato, la voglia di creare, ancora una volta,
un’occasione per rinsaldare antichi legami, ritrovando volti e persone, ed
anche per stabilire nuove connessioni, con questa ulteriore esperienza di
condivisione da vivere attraverso la scrittura.
Un libro da scrivere insieme, un incontro a cui dar
forma. Un’altra occasione per ri-nascere.
C’è. E ci sarà. La speranza consiste nel credere che
qualcosa c’è, che qualcos’altro ci sarà; che occorre andare sempre avanti,
anche se non si sa verso dove, giacché dovremmo essere, sempre più
consapevolmente, disponibili ad abbandonare il già conosciuto-posseduto, per
incamminarci instancabilmente verso un
oltre sempre da scoprire, verso un di-più
ancora da vivere, scegliendo di condividere – almeno con qualcuno – quell’«incessante marche»[8] che
fa di noi degli esseri autenticamente viventi.
Introduzione (seconda)
Ritornate bambini
ritrovate lo spirito d’infanzia.[9]
«Il mondo muore
per mancanza di spirito d’infanzia»[10], affermava Bernanos e lo scriveva oltre 70 anni fa, fotografando profeticamente
la nostra attualità. Il convincimento bernanosiano insiste su diversi livelli.
Vorrei qui soffermarmi sull’aspetto relazionale.
Un bambino manifesta le sue emozioni in modo immediato
e lineare: piange, urla, ride, cerca le coccole, regala baci e sorrisi in modo
spontaneo, senza misure prudenziali o calcoli interessati.
Ma ‘i grandi’ hanno fretta di insegnar loro ‘le buone
maniere’. Gli spiegheranno che non deve assolutamente dire alla zia, che gli
tira le orecchie per farlo... crescere di statura: “Mi stai antipatica! E poi non mi toccare che mi fai male!”.
Tenteranno di convincerlo che non è conveniente chiedere alla mamma un abbraccio
supplementare prima di addormentarsi, perché questo lo fanno ‘i bimbi piccoli’;
gli vieteranno di assaporare un cibo tastandolo con le mani (‘roba da
selvaggi’) o di saltellare allegramente davanti alla tv, mentre loro, gli
adulti, seriosamente stravaccati, vorrebbero seguire i soliti spettacolini, la
cui insulsaggine è sconcertante.
Fin dai primi anni, invece che di educazione alla
vita, alla creatività, alla semplicità, alla gioia, inizia per tutti (o quasi)
un processo di ‘fossilizzazione’ della dimensione espressiva, che viene
regolata da norme di comodo, da convenzioni spesso prive di senso e da ambigui
utilitarismi che, più che formativi, si rivelano deformanti.
E tale sconcertante e disumano percorso si fa sempre
più rovinoso. Spesso anche all’Università, luogo deputato alla formazione degli
uomini e donne di domani, si assiste ad una reiterata ‘violenza sui maggiori’. Sì, si pratica la violenza quando ai
ragazzi si strappano i sogni, quando si deride la speranza, quando li si
costringe a sperimentare l’inutilità di coltivare le proprie personali passioni
e competenze. E, in modo subdolo e incontrastato, si diffonde, senza vaccini, il virus della «rinocerite»[11] ioneschiana = fanno tutti così.
Omologati nel conformismo della massa, per nulla interessati
alla propria crescita interiore, ci si illude di vivere, storditi nelle mille
cose da fare, maldestri nell’esprimersi, incapaci di una carezza, di una lode,
di un segno semplice eppur ricco di calore fraterno.
Si ha paura di manifestare il proprio essere profondo,
imprigionati nel reticolato di un ‘io’ spigoloso, glaciale, rifiutando il
rischio di essere se stessi fino in fondo.
Siamo troppo abituati a raccontare e ad ascoltare
episodi di violenza, di corruzione, d’ingiustizia, di alienante stupidità. Ma
in questo mondo così inquietante vengono vissute innumerevoli esperienze
pienamente e semplicemente umane, di cui si rischia di non saper nulla perché
non vengono condivise, giacché non fanno audience.
Questo libro, tra l’altro, vuol essere uno spazio in
cui raccogliere emozioni e ricordi da condividere, legati non tanto ad una persona,
ma ad un’esperienza didattica che ha visto me e tanti studenti, in modi e tempi
diversi, protagonisti insostituibili, intimamente connessi gli uni agli altri,
quasi sempre senza neppure saperlo.
In un momento così delicato di trasformazione
dell’Università e della società a tutti i livelli, queste pagine possono essere
lette come un segno di speranza, per ricordarci che occorre riappropriarsi dei
valori su cui fondare un’autentica cultura, sperimentata come confronto,
condivisione, dialogo, rispetto dell’alterità, dignità dell’esistenza umana e del valore unico di
ogni persona.
Vogliamo continuare a credere che anche l’impossibile può
diventare possibile, se si tiene accesa la lampada della speranza.
Se si sceglie di vivere nel rispetto di tutto ciò che è, nell’attenzione fedele
al bene di tutti, è/sarà possibile ancora dire, comunque e dovunque, anche
nell’università: «Yes, we can».
=
= =
Introduzione (terza)
È facile disperdersi nel mondo
e dimenticare la nostra connessione con lo
spirito.
Eppure, senza
tale legame, siamo solo dei morti viventi.
Sobonfu Somé
C’è il grosso rischio, quando fa molto freddo, di sentire più freddo, perché tutti battono i denti, s’imbacuccano fino al naso e continuano a ripetere che “si muore di freddo”. Così come quando c’è caldo, si rischia di sentirsi soffocare, perché tutti si sventolano, sudano e si lamentano: “Uffa! si muore di caldo!”
Che caldo! Che freddo! Oggi, poi, tutti e a tutte le
ore non fanno che ripetere: “Che crisi!”
Certo non si può negare che viviamo immersi nel
caos-crisi in ogni ambiente e a tutti i livelli. Ma se continuiamo a dire “che freddo!”, “che caldo!”, “che
crisi!” nulla mai cambierà e non faremo che aggiungere un tassello alla «bêtise»[12] galoppante.
E allora, «coraggio
e al lavoro»![13]
Viviamo in un contesto dominato dalla ricerca del
profitto e del piacere, a costo di tutto, lasciandoci centrifugare da un ritmo
disumano che ci toglie il gusto delle cose ‘vere’, quelle capaci di donare una
gioia profonda, ma che, secondo la logica dominante, non ‘valgono nulla’, sono
senza importanza.
Come non citare Bernanos?
Le piccole
cose sembrano senza valore, ma danno la pace. Sono come i fiori dei campi. Li si crede
senza fragranza, e tutti insieme profumano l'aria.[14]
Come non citare Ionesco?
Se non si
capisce l’utilità dell’inutile, l’inutilità dell’utile, non si capisce l’arte;
e un paese in cui non si capisce l’arte è un paese di schiavi o di robot, un
paese di infelici, di gente che non ride né sorride, un paese senza spirito.[15]
Un mondo governato da rigide logiche di mercato non
può che produrre trafficanti, schiavi, mercanti. È un mondo ‘vecchio’, raggrinzito,
senza brecce, senza colori. Un mondo senza poesia.[16]
E Sulivan, come non ascoltare la sua parola?
Cambiare il
ciclo delle fatiche in resurrezione, lasciare le immagini dispiegarsi.
Aspettare, soffrire il vuoto, aspettare ancora, occuparsi di piccoli niente...[17]
Ma se è vero come è vero che ciò che caratterizza la
persona umana è la sua libertà profonda, allora occorre impegnarsi – e attivamente – perché la novità dell’amore non cessi
di generare i suoi frutti profumati.
Abbiamo conquistato il cielo come gli uccelli
e il mare come i pesci,
ma dobbiamo imparare di nuovo il
semplice
gesto di camminare sulla terra come fratelli.[18]
Ma per riappropriarsi del gusto delle cose semplici,
del sapore delle relazioni ‘fraterne’, per sperimentare lo stupore dinanzi a ciò-che-è occorre ritrovare l’essenziale,
ciò che è «invisibile agli occhi»,
come lucidamente affermava A. de Saint-Exupéry.
Da una società godereccia e arruffona, ingiusta ed
arrogante, forse senza neppure accorgercene, ci siamo lasciati derubare del mistero, senza il quale l’uomo non può
che essere infelice. Ci siamo lasciati derubare della dimensione del sacro (non inteso nella sua accezione
limitante di ‘religioso’ = legato ad una religione). Svuotate della loro
dimensione di sacralità, cose e persone divengono ‘intercambiabili’[19], prive
di un significato unico e prezioso; ed è forse proprio qui che si radica la
mentalità dell’usa e getta.
Bisognoso del mistero, del sacro, del divino,
desideroso di uno spazio che sia immenso e di un tempo che sia eterno, l’uomo
che vuole «tutto e per sempre», come
affermava M. de Unamuno, non può sanare la sua inquietudine accontentandosi di
beni effimeri. Da qui l’urgenza del reseat.
Già, è necessario ripulire mente e cuore da tutto ciò che è inessenziale, fare
spazio dentro di noi per vivere ed accrescere la propria dimensione spirituale,
sganciati dalla quale non possiamo che essere tristi e smarriti. Privati
dell’aspirazione al l’infinito, al divino, siamo mortificati nelle nostre
aspettative più profonde. Rischiamo di diventare dei cadaveri ambulanti, dei
morti travestiti da viventi. «Vivete mentre
siete vivi!»[20]
E allora: Tutto
fuori per il satori![21]
Già, occorre eliminare tutto quanto ci appesantisce,
ci riempie, intasa il nostro essere profondo e ci imprigiona, ci rende
inospitali, incapaci di accoglienza e di riconoscenza.
Dobbiamo scegliere di svegliarci da quel torpore
spirituale che ci mummifica, che ci rende privi di creatività, incapaci di
comunicare autenticamente. Aborti di uomini e donne, che non sanno più guardare
l’altro, perché sganciati dall’Altro.
Occorre, prima di tutto, ridonare all’uomo la sua dimensione spirituale.[22]
= = =
Introduzione (quarta)
Tu sei rete di relazioni e nient’altro.
E tu esisti per i tuoi legami.[23]
Nell’era della comunicazione, mentre
ciascuno s’illude di gestire una vertiginosa rete di contatti, è facilmente
verificabile, nel vissuto quotidiano, un malessere diffuso che assume diversi
volti. Se fosse la crisi economica l’unica causa della non-gioia, allora i
ricchi dovrebbero essere soddisfatti. Ma a parte le risate più o meno sguaiate
e gli: Ok, tutto a posto!, il
malessere trasuda dagli sguardi spenti e da un individualismo sfrenato.
Pessimismo e disincanto, nervosismo, depressione, ostentazione e tracotanza:
questo ed altro ancora si legge nei comportamenti e nel linguaggio.
L’uso smodato del cellulare per dirsi e
mostrarsi sempre in contatto col mondo intero; la squallida oscenità dilagante
nelle strade, sui giornali, in tv; la violenza manifesta ed occulta, che
s’insinua in ogni interstizio del nostro quotidiano, così come negli
spettacoli, nei dialoghi comuni privati e pubblici e perfino nei giocattoli e
nei cartoon rivolti ai bambini non sono che alcuni sintomi comportamentali tristemente
rivelatori di una disumana esperienza di forzata solitudine.
La persona, che si caratterizza proprio
per il suo ‘essere relazionale’, si accorge di non entrare in comunicazione
autentica con gli altri e dunque si sperimenta sola. Triste e sola.
Finisce un incontro, una lezione, una
conferenza, una predica. Si conclude una telefonata. Si ritorna a casa dopo una
cosiddetta festa e ci si sente più soli di prima.
Davvero raro incontrare dei veri amici,
ossia persone gioiose di stare insieme gratuitamente e che, nel pieno rispetto
delle loro diversità, sono disponibili a dirsi e a darsi nella pienezza del
loro sentire, senza restrittive misure prudenziali.
Ancora più raro incontrare chi sceglie di
vivere delle relazioni ‘fraterne’, nella scelta consapevole di volersi ‘prender cura’[24], di
sentirsi, in certa misura ‘responsabile’[25]
dell’altro, di saperlo e volerlo accogliere nella totalità della sua persona,
limiti e sofferenza compresi.
Sull’urgenza di una comunicazione
autentica con le persone e con la realtà ho impostato il mio studio, il mio insegnamento
e i libri che ho scritto.
A
quoi bon? A che serve leggere,
scrivere, studiare se questo non aiuta a penetrare nel mistero del mondo, degli
altri, nel profondo di sé?
A che serve insegnare, se non per
sollecitare il gusto del dialogo, della relazione con/verso, la liberante
scoperta di essere se stessi e dunque di esprimere in semplicità le proprie
emozioni, paure, sogni, delusioni, attese?
A che serve accumulare titoli accademici,
moltiplicare le pubblicazioni e gli impegni, fare ‘un sacco di cose’, se poi non c’è più nella persona né lo spazio né
il tempo di accogliere ciò che è altro-da-sé, di contemplare con stupore
l’Altro?
Rinchiusi nel reticolato del proprio
miserrimo ‘io’, ci si lascia svuotare della propria creatività, ci si lascia
riempire da illusorie apparenze. L’effimero intesse il vissuto quotidiano.
apparire apparire apparire.
À
quoi bon?
Emerge l’urgenza di ritrovare
l’essenziale. Rifiutarsi di vivere come automi e appassionarsi a ritrovare il
senso di ciò che è, di ciò che si fa, si dice, di ciò che si è.
Radicarsi nel mistero di un Dio che ci
libera da un ‘io’ avido e senza futuro e ci dilata ad uno spazio immenso e ci
sconfina in un tempo eterno.
Riscoprirsi bisognosi di un ‘tu’ per dar
vita ad un noi, capace di sempre
nuove ed inimmaginabili creazioni.
esistere resistere consistere
Questo libro è un’ulteriore occasione per
stracciare i perbenismi di facciata, le convenzioni passivamente accolte e
creare uno spazio per esserci, in gioiosa semplicità.
Già tre volte, durante il mio insegnamento
universitario, ho proposto ai miei studenti una ‘scrittura insieme’.
2. Per ricordare Eugène Ionesco. Ad un anno
dalla sua morte, ho organizzato un incontro-lezione-spettacolo (28 marzo 1995),
durante il quale la mia esposizione (una non-conferenza)
era supportata da scene teatrali tratte dalle opere studiate e drammatizzate da
alcuni studenti. Su quell’esperienza nasceva la Compagnia Universitaria ed un libro: Un fiore per Ionesco in cui, oltre alla
mia lezione-presentazione, abbiamo raccolto le risonanze scritte dagli studenti-attori
e dal pubblico che aveva condiviso con noi quell’insolita ‘lezione ioneschiana’.
3. per dedicare
al piccolo Alessio una raccolta di favole, scritte da noi della Compagnia, in omaggio a Rossana, ‘la
farfalla dai capelli rossi’, di cui potrete leggere nel mio Briciolario.[26]
L’esito positivo di queste tre
pubblicazioni mi ha, forse inconsapevolmente, sollecitato a dar forma a questo
testo. Un nuovo ‘libro insieme’. Ma fin dall’inizio era chiaro che non poteva
trattarsi di mera ripetizione. D’altronde il mio innato orrore per la copia e
la fotocopia me lo avrebbe impedito.
Per i partecipanti al progetto-libro, scrivere
era ancora più difficile, giacché si trattava di esprimersi sui corsi svolti dalla
prof e sul suo modo di ‘fare lezione’.
Ma la difficoltà non riguardava soltanto i
miei ex studenti. Io stessa provavo un forte disagio a parlare di me, della mia
esperienza d’insegnante. All’inizio, continuavo a pensare che il libro avrebbe
dovuto far emergere una modalità d’insegnamento ed eventualmente i valori su
cui essa si radicava, ma non mai parlare di Maria Antonietta La Barbera. Io dovevo
essere assente (o quasi).
La conseguenza: penna in mano e foglio
bianco. Come parlare della mia esperienza, nella quale mi ero immersa e
identificata per 40 anni senza parlare di me? Ma la parola di Ionesco mi
riecheggiava dentro. Dai suoi denigratori accusato di vanagloria e di
un’ossessiva voglia di ostentazione, Ionesco si difendeva affermando che
ciascuno non può, in fondo, che parlare di sé, anche se parla d’altro e che il
proprio microcosmo non è che uno spaccato del macrocosmo universale; pertanto
le paure, le illusioni, le speranze del singolo sono quelle di ogni persona.
E poi, «nell’amore non c’è paura».[27]
Tutte le ‘stranezze’, vissute e proposte
dentro e fuori le aule, sono sempre nate nell’urgenza di sollecitare gli
studenti a ritrovare la loro identità più vera, la loro bellezza profonda, per
riappropriarsi dei loro sogni e valorizzare la loro dimensione creativa. E così
anche questo libro.
E allora via! Si comincia.
Senza falsi pudori, in semplicità, ecco
alcuni cocci della mia avventura universitaria, ricostruiti da me e da quanti,
fra i miei studenti, hanno scelto di raccontare qualche frammento della mia
storia d’insognante, attraverso la
loro esperienza, i loro ricordi ed emozioni.
Una raccolta di lettere, messaggi,
aneddoti che, legati insieme alle mie ‘memorie in briciole’, rendono il
racconto di questa esperienza più vero, meno soggettivo. Certamente più ricco
e, comunque, semplicemente umano.
* *
*
E adesso
silenzio, che la lezione... non comincia
Ammesso che una lezione, nel senso
tradizionale, io l’abbia mai cominciata... O forse sì.
Già, perché in classe, almeno negli
ultimi decenni, non andavo esclusivamente per fare lezione (nel senso di
insegnare una disciplina), ma per incontrare delle persone, per farle incontrare
tra loro, per comunicare l’importanza della lettura, l’utilità e la meraviglia
della scrittura, per far scoprire ai giovani che incontravo di quante cose
fossero capaci, spesso senza esserne consapevoli.
Volevo far intravedere il segreto
nascosto nei libri e aiutarli a scoprire che la letteratura non è una materia
da studiare o da capire, piuttosto un immenso patrimonio in cui ritrovare
esperienze umane, elaborazioni concettuali, realizzazioni artistiche
affascinanti, capaci di suscitare stupore e voglia di vivere e di condividere.
Volevo far loro sperimentare che tutto –
e dunque anche una lezione universitaria – può essere vissuta in modo diverso,
in modo “umano”. E che l’esito non può essere determinato in modo meccanico dal
contesto esteriore.
Se è vero che siamo esseri ‘liberi’, in
qualche modo, in certa misura, possiamo e dobbiamo scrivere noi la nostra
storia, allenandoci a «innestare le
ali nelle nostre ferite» (J. Sulivan).
Ci sarò riuscita? Non importa saperlo.
Ho imparato a credere che ciò che conta
non sono i risultati immediati, ma ciò che hai seminato o meglio l’entusiasmo e
l’amore che hai messo nel seminare, la passione che hai sperimentato nel parlare
e nel voler creare spazi di silenzio e d’incontro, per dar vita ad
un’esperienza sempre nuova di confronto, di dialogo, di condivisione.
Spero pertanto, anzi credo, che qualche
aiuola fiorita – e chissà magari qualche albero – germinerà da qualche parte,
in questo nostro mondo oggi sempre più desertificato...
Speranza e certezza, le mie, radicate in
una paziente pazienza verso me stessa, verso le mie inevitabili ed innumerevoli
debolezze. Ma Sulivan mi ha insegnato a «cantare la gloria dei limiti».
Immaginate dunque... quanti canti nelle
mie giornate!
vostra
insognante
NOTE
[1] In fila per tre è una canzone di Edoardo Bennato, che ha animato un riuscito incontro-spettacolo dedicato a Ionesco, dal titolo Chi è? (1997) e messo in scena dalla Compagnia Universitaria.
[1] In fila per tre è una canzone di Edoardo Bennato, che ha animato un riuscito incontro-spettacolo dedicato a Ionesco, dal titolo Chi è? (1997) e messo in scena dalla Compagnia Universitaria.
[2] «Je jette des mots au-devant pour qu’ils me
tirent. Il faudra bien un jour les suivre». J. Sulivan,
Joie errante, Paris, Gallimard, 1974,
p.11. Jean Sulivan è uno scrittore di cui mi occupo da una ventina d’anni e che
ho spesso proposto durante i miei corsi.
[5] Salmo 110, 4.
[6] Mi riferisco al neologismo che dà il titolo a
questo libro e di cui indico l’origine ed il significato nella legenda inserita
alla fine del testo.
[7] «Lasciare Dio per Dio». Questa frase, credo di san Vincenzo de’
Paoli, e comunque sperimentata da tutti coloro che, radicati nell’amore di Dio,
hanno vissuto la loro esistenza nell’attenzione all’altro, ha sempre più
guidato le mie scelte quotidiane.
[8] Espressione ricorrente
nella scrittura di J. Sulivan.
[9] «Redevenez vous-mêmes des enfants, retrouvez l’esprit d’enfance». G.
Bernanos, Les Grands Cimetières sous la lune, in Essais et écrits de combat, I, Bibliothèque de La Pléiade, Paris,
Gallimard, 1971, p. 516. Cfr. Vangelo di Matteo, 18, 3: «Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli».
[10] «J’ai
toujours pensé que le monde moderne péchait contre l’esprit de jeunesse, et que
ce crime le ferait mourir». G. Bernanos,
Les Grands Cimetières sous la lune,
cit., p. 531.
[11] La
metafora ioneschiana degli uomini trasformati in rinoceronti è stata spesso
oggetto di studio e riflessione durante i corsi in cui ho proposto il Teatro
dell’assurdo.
[12] Il
tema della ‘stupidità umana mi ha sempre affascinato; l’ho proposto durante i
corsi, attraversando i testi di Pascal, Flaubert, Jarry, Péguy, Bernanos,
Ionesco.
[13] Dal profeta Aggeo 2, 4.
[14] «Les petites choses n’ont l’air de rien, mais elles donnent la paix. C ’est comme les
fleurs des champs. On les croit sans parfum, et toutes ensemble, elles embaument.»
G. Bernanos, Journal
d’un curé de campagne, in Œuvres
romanesques, Bibliothèque de La Pléiade, Paris, Gallimard, 1961, p. 1191.
[15] «Si
on ne comprend pas l’utilité de l’inutile, l’inutilité de l’utile, on ne comprend
pas l’art; et un pays où on ne comprend pas l’art est un pays d’esclaves et de
robots, un pays de gens malheureux, un pays de gens qui ne rient pas ni ne
sourient, un pays sans esprit». E. Ionesco,
Notes et contre-notes, Paris,
Gallimard, 1966, p. 215.
[16] «Poesia / è
rifare il mondo, dopo / il discorso devastatore / del mercadante». D. M. Turoldo.
[17] «Changer le cycle des fatigues en
résurrection, ne pas empêcher la mélodie qui élargit le silence, laisser se
déplier les images. Attendre, souffrir le vide, attendre encore, s’occuper à
des riens». J. Sulivan, Mais il
y a la mer, Paris, Gallimard,
1964, p. 21.
[18] La frase è di Martin Luther King.
[19] Esemplari, a questo proposito, i personaggi-fantoccio
ioneschiani.
[20] «Vivez tant que vous êtes vivants». J. Sulivan, Bloc-notes, s.o.s.,
Paris, 1986, p.121.
[21] Satori =
oltre i confini dell’Io. Nel Buddismo Zen, indica l’esperienza del risveglio in
senso spirituale; comprensione, illuminazione profonda.
[22] «Il faut d’abord et avant tout respiritualiser l’homme». G. Bernanos, La Liberté, pour quoi faire ? in Essais et écrits de combat, II, Bibliothèque de La Pléiade, Paris,
Gallimard, 1995, p. 112.
[23] «Tu es nœud de relations et rien d’autre. Et tu existes par tes liens».
A. de Saint-Exupéry,
Citadelle, cap. CXCIV.
[24] Il “prendersi
cura” responsabilmente dei giovani è il dinamismo su cui si fonda la
spiritualità salesiana, vissuta da Giovanni Bosco e Maria Domenica Mazzarello.
[25] Come
non citare le sapienti parole del Piccolo Principe: «Io sono responsabile della mia rosa»? Significativa metafora,
capace di suggerire il senso ed il significato di ogni esistenza umana che
valga la pena di essere vissuta.
[26] Briciolario = non ho inserito questo
termine per una sterile voglia di proporre una sfilata di neologismi, piuttosto
perché mi pare che il termine suggerisca eloquentemente la pochezza di quanto
qui raccontato rispetto alla ricchezza di quanto vissuto.
[27] Prima
Lettera di Giovanni 4, 18.
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