27 febbraio 2014

LE PAROLE DI UN “UOMO LIBERO”.

Ecco alcune affermazioni di Bernanos su se stesso. Non parole blabla, ma la condivisione di un vissuto, di un’esperienza artistica, umana e spirituale che può dilatare i nostri orizzonti, troppo spesso rimpiccioliti a misura… di smartphone; attraverso la “tavoletta” più o meno sofisticata e superaccessoriata, che stringiamo nella mano, crediamo di possedere l’universo  e di organizzare… programmare... comandare tutto… ma è solo una sterile e nefasta illusione. La parte vivente di noi si spegne ogni giorno più inesorabilmente. Le parole di un uomo libero, più che mai, possono essere profondamente salutari… “Mi sono sempre sforzato di svegliare quelli che dormono e di impedire agli altri di addormentarsi.” [1]


Sono quel che scrivo

La mia opera vale quel che vale, ma non è un teatro ben organizzato in cui gli spettatori vengono per distrarsi, e dove io stesso vado per cercare di distrarli, cioè per guadagnarmi la vita.
La mia opera sono io stesso, è la mia casa; io vi parlo con la pipa in bocca, il mio abito ancora bagnato dall'ultimo temporale e con gli stivali che fumano dinanzi al focolare.
Per rivolgermi a voi, non mi curo neppure di passare da una stanza all'altra, vi scrivo dalla sala comune, sopra la tavola sulla quale fra poco cenerò con mia moglie e i miei figli. Tra voi e me non c'è neppure il tramite ordinario di una biblioteca, poiché io non ho libri.
Tra voi e me non c'è che questo quaderno da due soldi. Non si affidano menzogne a un quaderno da due soldi. Per questo prezzo non posso darvi che la verità.[2]

Rivivere

Che importa che la mia opera sopravviva? La grazia che aspetto è che essa riviva, foss'anche in un altro secolo, un altro tempo, un'altra terra, un'altra anima, la quale non saprà nulla di me, neppure il mio nome. C'è mille volte più onore a rivivere che a sopravvivere.[3]
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La mia musica vi arriva dalle estremità del mondo, così come la testimonianza non della mia arte, ma della mia costanza.
Non è la mia canzone che è immortale, è ciò che io canto.[4]


Infanzia

Appena prendo la penna, ciò che subito sorge in me è la mia infanzia, la mia infanzia così ordinaria, che somiglia a tutte le altre, e dalla quale tuttavia traggo tutto quel che scrivo, come da una sorgente inesauribile di sogni.
I volti e i paesaggi della mia infanzia, tutti confusi, mescolati da questa specie di memoria incosciente che fa di me ciò che sono, un romanziere, e, se piace a Dio, un poeta.[5]

                                                                                ~   ~   ~

Che importa la mia vita! Voglio soltanto che essa resti fino in fondo fedele al bambino che fui.[6]
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Spirito d'infanzia

Ho sempre pensato che il mondo moderno peccasse contro lo spirito d'infanzia, e che questo crimine l'avrebbe fatto morire. È chiaro che la Parola del Vangelo: “Non potete servire Dio e il denaro” ha il suo equivalente: Non potete insieme servire lo spirito d'infanzia e lo spirito di cupidigia.[7]

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Povertà

Io sono contento di avere costruito la mia vita così male che vi si può entrare come in un mulino. Aggiungerò che non rimpiango di aver fatto tanto cammino attraverso il mare, poiché ho trovato in questo paese, se non la casa dei miei sogni, almeno quella che somiglia meglio alla mia vita, una casa fatta per la mia vita. Le porte non hanno serrature, le finestre sono senza vetri, le camere non hanno soffitto, e l'assenza di soffitto fa che sia visibile tutto quello che nelle altre è nascosto... Di questa casa, si può dire che è aperta! Viene a noi chi vuole, per la strada che vuole. Tra noi e quelli che passano non vi è che un muro di terra che dal tramonto all'alba, attraverso tutti gli interstizi, aspira l'aria notturna. Noi siamo nelle mani dei passanti.
Potessimo, sempre insieme, io e i miei libri, essere alla mercé dei passanti![8]

Vocazione

Non sarò mai nient'altro che uno scrittore francese che dice la verità e che andrà fino in fondo al suo rischio.[9]
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Occorre che la mia vocazione, il mio lavoro e la mia vita non facciano che una cosa sola, che io innalzi tutto ciò fino a Lui.[10]
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Mi sembra che io abbia rispettato la mia vocazione; essa non è stata per me una fonte di onori o di vantaggi; io non l'ho trattata come un'amante, ma come una compagna venerabile alla quale Dio mi ha unito.[11]


Arte e scrittura

L'arte non mi impedisce di dormire. Se avessi uno scrupolo d'artista vorrei che non servisse ad altro che a toccare più profondamente i cuori. Arte è parlare alle anime.[12]

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Il mestiere letterario non mi tenta, mi è imposto. È il solo mezzo che mi è dato di esprimermi, cioè di vivere. Per tutti un'emancipazione, una liberazione dell'uomo interiore, ma qui qualcosa di più: la condizione della mia vita morale.[13]

 ~   ~   ~

Così preso il mestiere di scrittore non è più un mestiere, è un'avventura, e in primo luogo un'avventura spirituale. Tutte le avventure spirituali sono dei Calvari.[14]

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Ho imparato a soffrire un giorno intero davanti ad una pagina bianca, piuttosto che abbandonare un'idea giusta.[15]
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In questo mondo, la condizione del letterato somiglia molto a quella del turista; la passione che li anima è la curiosità. L'uomo di lettere passa da un'idea all'altra come l'altro da un paesaggio all'altro.
Io non sono curioso. Posso perfino affermare che la curiosità mi sembra una specie di vizio egoista, crudele e vano. Io non mi servo delle idee, sono le idee che cerco di servire. O piuttosto esse si servono di me.[16]
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Che importa se i miei libri non suscitano che curiosità, o anche simpatia! Ciò che occorre è che spezzino i cuori.[17]


Amore

Io cerco di comprendere. Credo che mi sforzo d'amare.[18]

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Non avendo mai atteso dall'esperienza che mi apportasse la saggezza, io le chiedo soltanto un approfondimento della mia pietà, che scavi in me così profondamente per non rischiare più che si prosciughi la sorgente delle lacrime.[19]


Verità

Ho ricevuto la mia parte di verità come ciascuno di voi ha ricevuto la sua, e ho compreso molto tardi che non vi aggiungerò nulla, che la mia sola speranza di servirla è di conformarvi la mia testimonianza e la mia vita. Poche persone rinnegano la loro verità, forse nessuno... Si contentano di mitigarla, di sminuirla, di diluirla: ”Mettono l’acqua nel proprio vino”.[20]


Ottimismo e pessimismo

Il termine pessimismo non ha più senso ai miei occhi così come quello di ottimismo, che generalmente gli si oppone. Questi due termini sono svuotati dall'uso così come il termine di democrazia, che serve a tutto e a tutti.
Il pessimista e l'ottimista hanno in comune il fatto di non vedere le cose così come sono: l'ottimista è un imbecille felice, il pessimista un imbecille infelice.
So bene che vi sono tra voi molte persone in buona fede che confondono speranza e ottimismo.
L'ottimismo è un surrogato della speranza, di cui la propaganda ufficiale si riserva il monopolio. Approva tutto, subisce tutto, è per eccellenza la virtù del contribuente. Quando il fisco lo ha spogliato perfino della camicia, il contribuente ottimista si abbona ad una rivista nudista e dichiara di camminare nudo per igiene, affermando di non essersi mai sentito così bene.[21]
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Io spero il regno di Dio. La civiltà scommette per la parte bassa dell'uomo. Noi scommettiamo per l'altra. Essere eroici o non essere più.[22]


Il linguaggio dell'infanzia

Non si parla in nome dell'infanzia, occorrerebbe parlare il suo linguaggio.
Ed è questo linguaggio dimenticato, questo linguaggio che io cerco di libro in libro, imbecille! Come se un tale linguaggio potesse scriversi, fosse mai stato scritto.
Non importa! Mi capita talvolta di ritrovarne qualche accento... ed è questo che vi rende l'orecchio attento, compagni dispersi in tutto il mondo, che, per caso o per noia, avete un giorno aperto i miei libri.[23]
~   ~   ~

Parlare un linguaggio cristiano ! io non voglio dire un linguaggio ortodosso, approvato dai censori, irreprensibile, ma un linguaggio cristiano, mio Dio, un linguaggio che tocchi i cuori, che coinvolga i cuori.[24]


Io non sono...

Io non sono un filosofo, un pensatore, un professore. Sono un uomo come voi, come uno qualunque di voi, ma io sento ciò che voi non sentite, ciò che voi subite senza sentirlo l'immensa pressione esercitata ad ogni ora, giorno e notte, su tutti noi dal conformismo universale, anonimo, che dispone di risorse inesauribili, di metodi ingegnosi ed implacabili per la deformazione degli spiriti. Queste risorse, questi metodi sono nelle mani di un ristretto numero di uomini legati al potere economico, senza scrupoli, molto più potenti dei governi.[25]

Io non sono uno scrittore. La sola vista di un foglio di carta bianca mi sconquassa l'anima. La specie di raccoglimento fisico che un tale lavoro impone mi è così odioso che lo evito tanto quanto posso.[26]
~   ~   ~

Lo strumento di cui mi servo è odioso, perché io sono maldestro, e, quando mi succede di utilizzarlo abilmente, nove volte su dieci, riesco a soddisfare solo i conoscitori, gli iniziati. Ma non importa! È il mio strumento, è il solo di cui dispongo; non meritavo che il buon Dio me ne designasse uno diverso; io so perfettamente che un santo sorriderebbe di questo povero mezzo per toccare i cuori. Ma è il mio strumento.[27]

  
Io sono un vagabondo...

Pensatemi come una specie di viaggiatore, di avventuriero. Non sono altro, non sono degno di essere altro e, se entro in cielo, vorrei che fosse in questa qualità di vagabondo.[28]

                                                                                  ~   ~   ~



* Pubblicato in Bernanos. Pensieri parole profezie, Milano, Paoline, 1996.






NOTE

[1] Liberté, 299
[2] Anglais, 21
[3] Enfants, 902
[4] Enfants, 867
[5] Correspondance II, 114
[6] Cimetières, 404.
[7] Cimetières, 531
[8] Enfants, 879
[9] Correspondance II, 621
[10] Correspondance II, 312
[11] Correspondance II, 311
[12] Correspondance II, 401
[13] Correspondance I, 162
[14] Correspondance II, 588
[15] Correspondance I, 296
[16] Robots, 162
[17] Correspondance I, 361
[18] Cimetières, 371
[19] Cimetières, 526
[20] Enfants, 901
[21] Liberté, 15
[22]  Intervista del 1931 di F. Lefèvre, cit in Essais, 1223
[23] Cimetières, 355
[24] Enfants, 843
[25]  Robots, 234
[26] Cimetières, 353
[27] Enfants, 876
[28]  Correspondance I, 305

26 febbraio 2014

Intervista “immaginaria” (ma non troppo)
a Georges Bernanos



Quando la ragione sembra ormai definitivamente incapace a spiegare, a raccontare, a far conoscere per far vivere, occorre il dialogo profondo[1] nelle forme della poesia, della fede, dell’immaginazione creativa, per continuare ad alimentare quella sete di verità, quella fame di sapere e di amare, che costituisce il dinamismo vitale di ogni persona, anche se talvolta in modo inconsapevole.
E così si rivela l’urgenza di praticare moduli di comunicazione che possano “interessare”, spazi in cui le parole dette o scritte ven­gano non solo lette, ma anche “ascoltate” e non si riducano a sciabordii verbali o a “crucidiscorsi”, ineccepibili dal punto di vista logico, ma del tutto privi d’interesse vitale per chi legge e, in fondo, anche per chi scrive.
Far conoscere il pensiero, la vita, la produzione di uno scrit­tore oggi. Come? come interessare? quale linguaggio utilizzare? quale modalità comunicativa?
Troppe parole sono state dette su tutto e su tutti: le problematiche letterarie sono state sviscerate, gli autori interpretati, le opere analizzate nei più microscopici dettagli, e lo stesso concetto di “letteratura” ha generato un ennesimo filone inarrestabile di ipotesi interpretative e di scuole di pensiero e non, intessute di molti autorevoli discorsi e di innumerevoli, spesso oscurissime, parole.
E tutto giunge sul mercato. Le opere d’arte vengono utilizzate come oggetti, solo per poter sperimentare o giusti­ficare sempre più sofisticate griglie d’interpretazione per ogni nuovo lettore, improvvisatosi critico letterario.
E così saggi su saggi… e monografie… e libri. Quanti libri! perfino quelli… gonfiabili!
Ma siamo ormai tutti, più o meno consapevolmente, saturi di parole “mute”, di dissertazioni inanimate, di dimostrazioni troppo lo­giche per essere “vere”.
Il “critichese”[2] profuma (o maleodora?) di linguaggio abu­sato, di cui è necessario servirsi per comprendersi (si fa per di­re!) in certi ambienti sedicenti culturali, per «confermare la pro­pria appartenenza alla corporazione»[3]. Ma tale linguaggio non comunica nel profondo; si limita ad operare sofisticate elaborazioni in cui i testi, gli scrittori, così come ogni esperienza umana vengono ridotti a dati da “consumare”.
Non voglio certo sminuire l’innegabile arricchimento apportato da ogni studio serio, qualunque sia la metodologia praticata, ma occorre sempre ricordare che è anche il “cuore” della persona, la sua interiorità che hanno bisogno di essere alimentati, e non soltanto la razionalità[4].
Chiunque rifiuti di «vivere alla superficie di se stesso»[5] e non accetti di lasciarsi materializzare dalla banalità e dall’inessenziale aspira alla pienezza, allo sviluppo integrale di tutto il suo essere, in ogni sua potenzialità.
C’è, in chi vuole vivere umanamente[6], un bisogno vitale di esperienze di verità, di testimonianze di speranza, di esempi convin­centi che, dal più profondo di sé, ridonino il gusto di vivere, ripro­pongano, come irrinunciabile, il rischio di amare.

Dall’urgenza di un coinvolgimento personale realmente signifi­cativo nasce questa “immaginaria”[7] intervista a Georges Bernanos.
Fin dalla prima lettura dei testi di questo scrittore, ho fatto l’esperienza di trovarmi in un mondo che mi era familiare, in uno spazio in cui mi riconoscevo ogni giorno di più e in cui ogni parola o silenzio dilata­vano segretamente, ma profondamente e smisuratamente il mio spa­zio interiore.
L’autore del Journal è qualcuno che mi ha svelato qualcosa del mistero della vita e della mia esistenza personale. Desidero pertanto che quella parte di verità che lo scrittore ha custodito in sé e trasmesso attraverso la sua opera possa, anche oggi, essere offerta a chi sia disponibile a volerla ricevere.
La parola di Bernanos, che ci giunge attraverso la sua scrittura, sia quella “sognata” nei romanzi, o quella violenta e consa­pevolmente “vissuta” nella storia politica e culturale della “sua” Fran­cia, è una parola fortemente attuale, viva, che interroga anche oggi il lettore attento, perché il presente, che stava a cuore allo scrittore, era certo quello del suo tempo, ma non era limitato soltanto ai “fatti-del-giorno”, di cui peraltro egli non accettava di essere solo uno spet­tatore passivo.
«Io non sono quello che guarda il mondo come uno spettacolo divertente, ma vi difendo la mia “querelle” con passione, con rab­bia, con fuoco, con tutta la mia anima, con tutta la mia vita»[8].
Romanzi, saggi o lettere, i testi di Georges Bernanos interes­sano il lettore attento per la loro attualità, perché essi testimoniano di un’esperienza umana di rara autenticità, alimentata da una co­stante e appassionata ricerca della verità, da un urgente e teneris­simo bisogno di amare e da una generosa, quanto gratuita solidarietà con gli uomini.
«Appartengo con tutta l’anima al doloroso gregge degli uomini. Vorrei saperli amare abbastanza, per compatire la loro miseria e non per utilizzarli, anche se fosse a fini edificanti»[9].
In un contesto strutturato sulla banalità e sul compromesso, una parola che abbia il coraggio di essere fuoco che vuol consumare l’anonimato, sale[10] che disinfetta il putridume del cuore umano, ammalato di menzogna, è parola scomoda, ma anche alternativa.
Bernanos e il suo stile di vita, coerente con la sua fede, non può certo essere accolto dal grosso pubblico, ma, in piena consapevolezza, egli sceglie di rivolgersi a quei pochi per i quali è nato e a cui deve consegnare quella parte di verità di cui si riconosce il de­positario[11].

Ciò che ha sempre interessato l’autore del Journal è la persona umana, perché «il Verbo si è fatto carne»[12], perché Dio si è fatto uomo e, da instancabile cercatore della verità, ha fatto della sua attività di scrittore una costante testimonianza dei valori della interiorità, vivendo la scrittura come uno spazio di comu­nicazione col lettore, che egli vuole risvegliare perché, nella consape­volezza e nella scelta del rischio, scelga di vivere a livelli autentica­mente umani: «Mi sono sempre sforzato di svegliare quelli che dormono e di impedire agli altri di addormentarsi. È questo un compito che non comporta grandi profitti né grandi onori e che, anzi, vi preclude molte strade. Ma non importa[13].


Alla luce di quanto affermato finora, ho scartato l’ipotesi del solito saggio, più o meno valido scientificamente, ma quasi sempre del tutto estraneo agli interessi più profondi di me-persona che scrivo e di te-lettore che leggi per meglio conoscerti e dunque per essere-di-più.
Ho voluto adottare la forma del dialogo, attraverso cui spero di far emer­gere quanto ritengo costitutivo di Bernanos, consentendogli, per mezzo delle citazioni tratte fedelmente dai suoi testi (da me tra­dotte e utilizzate nell’intervista), di essere lui stesso a comunicarsi al lettore in modo diretto, con quella verità che è propria di ciò che sgorga dal profondo e non è stata ancora del tutto definita da schemi puramente concettuali che, certo spiegano, ma insieme “consumano” ciò che è vero.
Questa “intervista immaginaria ha pertanto la pretesa di essere vera e «vivante»[14]. Ritengo infatti che sia una formula valida per “incontrare” lo scrittore ed imparare a conoscerlo; ma anche per chi già lo conoscesse, si tratterà di una modalità di rilettura capace di far penetrare più in profondità nell’universo bernanosiano, giacché le parole dello scrittore (e non i discorsi su quelle parole) ri­suoneranno di novità, proprio perché non utilizzate per verificare ipotesi critiche, né per sperimentare griglie di lettura più o meno originali.
Si può affermare di Bernanos quanto egli ha scritto di Charles Péguy: «È un uomo che, anche se morto, resta a portata di voce, resta alla portata di ciascuno di noi. È un uomo che risponde ogni volta che lo si chiama»[15].
Sarà pertanto Georges Bernanos a parlare, a comunicarsi con immediatezza, per scuotere chi lo ascolta dal sonnambulismo spirituale: «Ho giurato di commuovervi – con l’amicizia o con la collera, che im­porta[16].

 Sto per raggiungere il Café de la Rode[17], dove so di poter intervistare Georges Bernanos.
Voglio incontrarmi con chi si definisce un vagabondo, un povero forse, qualcuno che non ricerca la sicurezza ad ogni costo, ma solo la fedeltà a se stesso, alla propria personale vocazione.
Attendo quest’incontro con la certezza che quanto Georges Bernanos dirà avrà il gusto dell’autenticità, il sapore delle realtà vive e vissute, le sole capaci di toccare il profondo di chi ascolta. 

    
 È lì, con quel suo quaderno «da due soldi» fra le mani, in­tento a scrivere con tutta la persona.
Mi risuonano dentro le sue parole: «Occorre che la mia vocazione, il mio lavoro e la mia vita siano una cosa sola»[18].
Sì, più lo guardo e più comprendo che Bernanos ha vissuto questa unità che, se vera, si manifesta sempre: è lì, dinanzi alla pagina, ed è tutto il suo corpo – e perfino le sue stampelle –, così come tutta la sua intelligenza e la sua interiorità, che danno forma alla sua scrittura.
Non voglio interromperlo e mi fermo presso il tavolo e guardo quella pagina, la grafia regolare, come se fosse ritmata, le numerose cancellature e sostituzioni, e sento, quasi fisicamente, la fatica e la serietà del suo impegno di scrittore.
Pur immerso nel suo “sogno”, la sua ipersensibilità gli fa avvertire la mia presenza e solleva il capo, lentamente.

Incontro i suoi occhi, di un blu che non ho mai visto; tra­smettono una luce intensa e sembrano aperti su spazi invisibili. Il suo sguardo diretto, sincero, penetrante, trasparente, incredibilmente pro­fondo mi avvolge e mi penetra dentro. Mi suggerisce l’impressione viva, quasi fisica del soprannaturale.
Sono qui per fargli delle domande, ma credo che non riuscirò a parlare: sono “afferrata” dal suo raccoglimento, che traspare da ogni tratto. Sento fortemente il suo sconfinato silenzio, che rende insignifi­cante ogni balbettio che tento di formulare.
Ma il suo volto silenzioso e composto si apre all’improvviso in una risata prodigiosamente contagiosa, e con la sua voce calda ed amichevole mi chiede: “E allora? quest’intervista?”

°  °  °
 malb. Monsieur Bernanos, vorrei sapere tutto di lei, vorrei conoscere il se­greto del suo sguardo e la causa della sua veemenza; vorrei che lei mi parlasse della sua soffocante angoscia e insieme della sorgente della sua incrollabile speranza.
Ma per sapere tutte queste cose non so proprio che domande porle.
Ecco, forse potremmo partire dal luogo dove ci troviamo, giac­ché è stato detto – e opportunamente – che, per lei, il «carnale», il «quotidiano» sono lo spazio del soprannaturale.
Perché scrive nei caffé?

gb.  Scrivo nei caffé col rischio di passare per ubriacone. Scrivo sui tavoli dei caffé percbé non saprei fare a meno, per lungo tempo, del viso e della voce umana.
I maldicenti sono liberi di presumere che io osservo. Io non osservo affatto. Scrivo nelle sale dei caffé così come un tempo scri­vevo nei vagoni ferroviari, per non essere ingannato da creature im­maginarie, per ritrovare, con uno sguardo posato sullo sconosciuto che passa, la giusta misura della gioia o del dolore[19].

malb. Non si tratta quindi di una passiva descrizione della realtà, quanto di ritrovare, in ciò che esiste, quella dimensione più vera che è al di là e al di sopra delle apparenze e che, pur tuttavia, il visibile ci fa in qualche modo intuire, ci rende quasi concreto; riscoprire il vero volto dell’uomo; ritrovare ciò che è nel suo profondo, quella parte di verità di cui ciascuno è depositario – come lei afferma – e che, sola, apre alla possibilità di un’autentica comunione fra le persone.

gb. Un uomo è per me un uomo solo per quella parte di verità che è in lui. Un eroe o un santo è, in primo luogo, un uomo che non mente[20].

malb. La verità. Ecco la parola che volevo sentirle dire.
Credo che ciò che anima intimamente la sua opera e tutta la sua vita sia proprio questa costante, fedelissima ricerca della verità, che si incarna come fuga da ogni menzogna, come denuncia di ogni impostura o compromesso, sotto qualsiasi forma si presenti.

gb. La verità somiglia al sole: se ne parla con molta simpatia, am­mirazione ed anche con devozione, ma si è subito stanchi di guardarla in faccia[21].

malb. La maggior parte degli uomini – anche di quelli che si dicono cristiani – vivono da ciechi, da muti. Vedono solo aspetti parcellizzati della realtà; dicono delle mezze verità, delle verità edulcorate, tra­dite… Delle menzogne. Anche e soprattutto oggi si vive nell’ipocrisia.

gb. Lo scandalo, infatti, non è di dire la verità, ma di non dirla tutta intera, di introdurvi, per omissione, una menzogna che la lascia intatta al di fuori, ma che, come un cancro, le rode il cuore e le viscere[22].

malb. Lei condanna, in modo inequivocabile, ogni forma di confort, qual­siasi pseudosicurezza, in quanto non dà spazio all’interiorità della per­sona ma, piuttosto, ne paralizza le energie più profonde, chiudendola così alla dimensione soprannaturale, che è la sua verità più intima.

gb. Tutte le malattie mortali, pur nella loro diversità, presentano un unico ultimo stesso fenomeno: l’arresto del cuore. Non vi è molto da aggiungere: la vostra società morirà nello stesso modo. Voi di­scuterete ancora dei “perché” e dei “come” e già le arterie non batteranno più[23].

malb. Così come Péguy, lei rimprovera allo stato moderno, agli «imbecilli» di eliminare il «rischio» dall’avventura umana, svuo­tando la persona di ogni interiorità, ossia di quella parte pro­fonda dell’essere dove, nella libertà, si operano le scelte autentica­mente serie.

gb. Non si capisce assolutamente niente della società moderna se non si ammette che essa è una cospirazione universale contro ogni specie di vita interiore[24].

malb. Sembra proprio che l’ideale del mondo moderno sia di elimi­nare ogni rischio, di programmare – fino alla morte – ogni brandello di vita, ogni spazio ed ogni istante, perfino il tempo libero, perfino la propria vita interiore. Non si vuole più correre il rischio di so­gnare, di sperare, perché non si ha più il coraggio né il gusto di vivere.

gb. Lo Stato pagano è risuscitato. Ciò significa che un numero sem­pre crescente di uomini rifiutano la parte eroica della vita, rifiutano di scommettere, con Pascal, per i valori eterni [25].
Essi, nella loro tragica solitudine, hanno fatto silenziosamente, nei confronti del soprannaturale, il patto dei tempi di peste: pensarvi il meno possibile e non parlarne mai [26].

malb. Da quanto lei afferma, signor Bernanos, risulta chiaramente mani­festa la sua convinzione circa il pericolo mortale per l’uomo di di­sperdersi nel benessere, nei sofisticatissimi prodotti di una civiltà tecnologica che fa dell’uomo un’altra macchina: una macchina di bisogni da soddisfare.
Ma non è solo lo pseudo benessere materiale a preoccuparla. Tutti i suoi testi sono infiammati dalla collera contro ogni forma di indifferenza spirituale, contro ogni confort che concerne la dimen­sione religiosa, contro una verità bell’e fatta, contro una verità ano­nima, che dà sicurezza solo ai fantocci, agli imbecilli, contro una ve­rità vecchia, soffocante, morta.

gb. Per non aver vissuto la vostra fede, essa non è più viva; è di­venuta astratta, è come disincarnata. Forse troveremo in questa disincarnazione del Verbo la vera causa delle vostre disgrazie.
Io ho sempre pensato che il mondo moderno peccava contro lo “spirito d’infanzia” e che questo crimine lo avrebbe fatto mo­rire [27].

malb. La verità, così come lei la intende, signor Bernanos, non esclude la ricerca sofferta, il rischio, la solitudine, la speranza...

gb. È proprio così.
Non si propone la verità agli uomini come una polizza di assi­curazioni o un purgante[28].
La religione ha perduto la sua anima. Essa si è codificata. La maggior parte dei cattolici considerano i Vangeli solo come un co­dice morale, che promette loro la salvezza eterna, come ricompensa di un’onesta esecuzione del dovere sociale. E però! Essi non ca­piscono o non vedono nulla. Noi siamo circondati di soprannatu­rale. Noi vi siamo immersi… Noi viviamo nel meraviglioso, e nel soprannaturale. Ma l’uomo può accorgersene soltanto quando è se stesso. E l’uomo vive quasi sempre al di sotto di se stesso. L’uomo si ritrova solo nell’eroico: il soldato al fronte, il corridore durante la corsa, l’amante nella pas­sione sono veri e conoscono la verità e le dimensioni del mondo. Tutti gli altri si trascinano nella menzogna. Tutti gli altri sono dei ciechi.
Nel giorno del giudizio, quale stupore, quale fallimento per loro nel sapere, nell’apprendere, nel comprendere che essi non si sono mai serviti del loro “io”! Che punizione! [29]
Pochi uomini rinnegano del tutto la loro verità, forse nessuno. Ma essi si accontentano di temperarla, di smorzarla, di diluirla. «Met­tono dell’acqua nel loro Vino»[30].

malb. E Georges Bernanos? Qual è il suo rapporto con la verità?

gb. Io ho ricevuto la mia parte di verità come ciascuno ha ricevuto la sua, e ho capito solo molto tardi che io non vi aggiungerò nulla, che la mia sola speranza di servirla è di conformarvi la mia testimo­nianza e la mia vita [31].

malb. Essere fedele alla verità equivale dunque per lei ad essere fe­dele a se stesso, alla sua identità più vera, ossia alla sua vocazione. È facile vivere cosi?

gb. Io penso che la vocazione sia un rischio; essa è il rischio stesso della vita[32].

malb. Come si armonizza, signor Bernanos, questa sua urgenza di ser­vire la verità, di essere fedele a se stesso, con il suo mestiere di scrittore?

gb. Il mestiere letterario non mi tenta. È il solo mezzo che mi è dato di esprimermi, ossia di vivere. Per tutti una dilatazione, una liberazione dell’uomo interiore, ma qui qualcosa di più: la condi­zione della mia vita morale [33].
Io non sarò mai nient’altro che uno scrittore francese che dice la verità e che andrà «fino in fondo» al suo rischio [34].
malb. La scrittura è allora la sua vocazione?

gb. Una vocazione di scrittore è spesso o piuttosto talvolta l’altro aspetto di una vocazione sacerdotale. Così vissuto il mestiere di scrittore non è più un mestiere: è un’avventura, è, innanzitutto, un’avventura spirituale [35].
Io e i miei libri siamo una cosa sola [36].

malb. Un’avventura spirituale? Ma sono parole troppo inattuali!
Oggi non si parla più di avventura, si discute soltanto di pro­grammi; non si parla più di spirito, si chiacchiera soltanto di ma­teria, di programmi, di prodotti, di oggetti da consumare.

(Ma Bernanos sembra non ascoltarmi e – come immerso in uno spazio tutto suo – continua a parlare).

gb. Io posso benissimo dubitare di essere un vero scrittore, poiché quattro anni di guerra non mi hanno convinto di essere un vero mi­litare e, ancor oggi, la presenza dei miei sei figli non mi dato la convinzione che io sia un vero padre di famiglia. Padre, scrittore o soldato, ho sempre l’impressione di non conoscere bene il mio mestiere, o almeno di ignorarne il fondamento, di aver fallito il mio apprendistato.
Io arrivo alla fine del mio compito come alla fine di addizioni troppo lunghe e complicate, finisco per contare sulle dita, – è certo che il buon Dio troverà sbagliate le mie soluzioni.
Questo convincimento non dona molta dignità alla vita, tut­tavia non mi spinge alla disperazione, perché io mi chiedo se poi, alla fine, qualcuno conosce, fino in fondo, il suo mestiere, se c’e in fondo un mestiere. Le persone un bel giorno si dicono: “Io sono un militare, io sono uno scrittore, io sono un padre” e ne compiono i gesti con una dignità imperturbabile, che appare quasi naturale.
Io posso davvero dubitare di essere un vero scrittore. Io scrivo come soffro o come spero, e se non sono un buon giudice dei miei scritti conosco la mia speranza e la mia sofferenza [37].
Io non pretendo giustificare i miei libri con la mia vita, né la mia vita con i miei libri; vorrei che la mia vita e i miei libri potessero essere così facilmente accessibili, da condurvi a me attraverso la strada più breve.
Lo strumento di cui mi servo è odioso, perché io sono malde­stro, e quando mi succede di utilizzarlo abilmente, nove volte su dieci, riesco a soddisfare solo i conoscitori, gli iniziati. Ma non im­porta! È il mio strumento, ed è il solo di cui dispongo; d’altronde non me­ritavo che il buon Dio me ne designasse uno diverso; so perfet­tamente che un santo sorriderebbe di questo povero mezzo per toc­care i cuori. Ma è il mio strumento.
Di solito coloro che praticano il mio mestiere si lamentano di non poter trascrivere, con la loro penna, che una parte irrile­vante del loro mondo interiore, di cui conservano il segreto. Io non posso certamente dirmi un buon giudice del mio mondo interiore, in cui sono forse ingannato da un semplice errore di prospettiva, poiché non l’ho mai visto dal di fuori e non mi ci sono forse mai del tutto ben assestato. D’altronde non vi ho costruito quasi nulla dopo tanti anni…Vi abito come un naufrago in un’isola, come un bimbo in un giardino.
E invece di avere l’impressione di esprimere solo una parte mi­nima dei sentimenti che mi animano, io mi stupisco che essi ab­biano potuto fornire la materia di un’opera, io non so per quale dono, per quale miracolo! È questo dono che io vorrei condividere, è la sola elemosina che io possa fare, ed è precisamente questo l’in­trasmissibile, l’incomunicabile [38].
            Io non sono uno scrittore [39].

L’estrema benevolenza del pubblico nei miei confronti non mi convincerà di essere uno scrittore professionista. La mia opera vale quel che vale, ma non è un teatro ben organizzato, in cui gli spet­tatori vengono per distrarsi e in cui io stesso vado per impegnarmi a distrarli, ossia per cercare di guadagnarmi la vita.
La mia opera sono io stesso, è la mia casa.
Io vi parlo con la pipa in bocca, il vestito ancora inzuppato dal­l’ultimo temporale ed i miei stivali che fumano dinanzi al focolare.
Per rivolgermi a voi, non mi curo neppure di passare da una stanza all’altra; vi scrivo dalla stanza comune, sul tavolo dove ce­nerò fra poco con mia moglie e i miei figli. Fra voi e me non vi è neppure il solito tramite di una biblioteca, perché io non ho libri. Tra voi e me vi è soltanto questo quaderno da due soldi. Per questo prezzo posso darvi soltanto la verità [40].

malb. Questa ricerca ed urgenza di comunicazione della verità si con­fonde in lei, signor Bernanos, con l’impegno sofferto della pratica di una scrittura attraverso cui comunicare col suo lettore. Cosa vuol dirmi, su quest’argomento?

gb. Non si può negare: l’Arte ha un fine che non è l’arte stessa. La sua perpetua ricerca dell’espressione non è che l’immagine inde­bolita, o come il simbolo, della sua perpetua ricerca dell’Essere [41].

malb. La ricerca della verità è allora un andare sempre più nel cuore delle persone, delle cose, delle situazioni, nel cuore del mondo; è un immergersi nel “sogno” per ritrovare la verginità del reale e quell’originaria armonia fra corpo e spirito, per cui tutto: indecisione e coraggio, passione ed ascesi, desiderio di benessere e sete di santità, tutto si ritrova nell’uomo non in caotica confusione, ma in una “multidimensionalità”, che non fa che rendere evidente un soprannaturale incarnato. È per comunicare tutto questo che lei si serve del «linguaggio dell’infanzia?»[42].

gb. Sì. È proprio così.
Di questo linguaggio dell’infanzia dimenticato, ricercato di li­bro in libro mi capita talvolta di ritrovare qualche accento; ed è questo che rende attento il vostro orecchio, o compagni dispersi nel mondo, che, per caso o per noia, avete un giorno aperto i miei libri [43].

malb. Non è infatti fuori dell’opera che va cercata la sua «profon­deur». La sua scrittura può intendersi come «gra­phie»[44], ossia come un tentativo unico, insieme estetico, etico e teo­rico di decifrare il mistero del mondo, attraverso i mezzi offerti dal linguaggio. Ma questo linguaggio dell’infanzia di cui lei parla, può suggerire interpretazioni assolutamente infondate.
Alcuni si sono, infatti, ostinati a vedervi soltanto un lin­guaggio che rievoca, un linguaggio del ricordo, del passato, un lin­guaggio dell’innocenza perduta. Ma io non credo che si tratti pro­prio o solo di questo.
Io vi leggo un segno evidente di urgenza di verità, di fedeltà all’Essere, all’interiorità della persona, alla sua vocazione.
Cerco di spiegarmi: se ciò che la interessa è toccare il “cuore” del lettore, risvegliarlo, sollecitarlo a “vedere” ciò che lei vede, la parola che lei dice deve squarciare lo spesso strato della banalità, deve scaturire dall’interiorità più profonda, manifestare la realtà più consistente dei personaggi-situazioni-mondo e raggiungere il cuore, il centro, l‘interiorità di chi legge.
Assolutamente nulla in comune, pertanto, con un linguaggio ano­nimo, stereotipato, materializzante.
Penso inoltre che questo sia uno dei motivi per cui il suo lin­guaggio dell’infanzia delude abbondantemente coloro che si aspettano un tono caramellato fra il rosa e il celeste, e sentono, al contrario, tuonare il fulmine della coerenza con violenta passionalità.
I suoi testi non sono certo acqua di lago stagnante, ma tor­renti impetuosi…

gb. Già, e non potrebbe essere che così.
C’è nell’espressione dell’uomo interiore un’agitazione oceanica, un’angoscia di perfezione, che è un cammino senza fine, il cammino della creazione in vista dell’eternità [45].

malb. Quindi non si tratta di raccontare né di raccontarsi.

gb. Assolutamente no.
L’opera dell’artista non è mai la somma delle sue sofferenze, dei suoi dubbi, del bene e del male di tutta la sua vita, ma la sua vita stessa trasfigurata, illuminata, riconciliata [46].

malb. Riconciliazione. Ecco un’altra parola di verità che lei mi ha reso parlante, signor Bernanos: la riconciliazione con gli altri, col mon­do, con Dio.

gb. Già. Come afferma il mio curato, il primo dovere è di riconciliarsi con se stessi [47].

malb. Ma questa strada di liberazione interiore, di pacificazione, di unificazione del proprio essere non è facile, né è facil­mente percorribile da soli. Che ruolo può avervi la scrittura letteraria?

gb. Ciò che noi oggi domandiamo al poeta non è di proporci dei modelli; è proprio di riconciliarci con noi stessi, di associare stret­tamente la sua arte ai nostri fallimenti, alle nostre disgrazie, alle nostre rivolte, alla nostra speranza [48].

malb. Ma ogni autentica riconciliazione non richiede un’umiltà profonda? una vera sem­plicità del cuore?

gb. Sì. E la vera umiltà è anzitutto equilibrio. Non ci si contorce per diventare umili, come un grosso gatto per entrare nella trappola dei topi [49]. Dubitare di sé non è umiltà. Credo che sia la forma più esaltata, quasi delirante dell’orgoglio, una specie di ferocia gelosa che fa ri­voltare un disgraziato contro se stesso, per divorarsi. Il segreto del­l’inferno deve essere questo [50]. Pertanto non disprezzatevi mai! È estremamente difficile di­sprezzarsi senza offendere Dio in noi: il disprezzo di sé porta dritto alla disperazione[51]. Inoltre odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia è di dimenticarsi. Ma se ogni orgoglio fosse morto in noi, la grazia delle grazie sarebbe di amarsi umilmente, come uno qualunque dei mem­bri sofferenti di Gesù Cristo [52].

malb. Gesù… Ma per lei, chi è Gesù?

gb. Gesù non è venuto come vincitore, ma come supplice. Egli è come rifugiato in me, sotto la mia custodia, e io rispondo di Lui dinanzi a Suo Padre. Io penso a Lui ed è me stesso che scopro a poco a poco, così come un altro Lui-stesso, nel fondo del pantano in cui ancora io mi agito[53].

malb. Una fra le accuse più frequenti rivolte ai credenti è che l’attenzione a Dio si ri­solve nell’ignoranza del proprio io. Lei afferma, al contrario, di ri-co­noscersi, di ritrovarsi solo in Cristo, e quindi testimonia una fede non astratta, ma una fede profondamente incarnata nella sua esistenza, che proprio e solo da questa fede riceve il suo senso ed il suo sapore.

gb. Io riconosco più che mai che la vita, anche con la gloria che è la più bella cosa umana, è una cosa vuota e senza sapore quando non vi si mescola sempre, assolutamente, Dio [54].

malb. Lei è uno scrittore “impegnato“, sia nel dar corpo al suo immaginario in quanto romanziere, sia nella realtà della storia politico-culturale della sua Francia, in una parola sia nel suo “sogno” che nella sua “realtà”. È marito e padre affettuoso, ma lei è, innanzitutto, “homo reli­giosus”, nel senso proprio del termine: lei è cattolico di razza e d’istinto, come amano dire, i suoi amici[55].
La sua fede è la sua forza. Ed è questa fede incarnata, crea­trice, vitale che informa la sua esistenza e genera ed alimenta la sua attività di scrittore, che s’inserisce in modo unico nel mistero della Salvezza, in quanto scrittura-parola che vuole guarire dall’impostura, dall’ipocrisia e che vuole ricordare all’uomo, privo di speranza, che c’è un Dio che salva, perché Lui è la Vita e, incarnandosi, vuole do­nare questa vita a tutti, perché ciascuno l’abbia in abbondanza.
gb. Sì, è questa la mia fede.
Ma il più difficile dei problemi ­­– o anche il solo da risolve­re – è di dare ad un mondo degenerato la volontà, o anche soltanto il gusto della salvezza[56].

malb. Per uscire da un atteggiamento di autosufficienza e accettare «una volta per tutte la tremenda presenza del divino in ogni istante della propria povera vita»[57] occorre uscir fuori dalla massa de­gli “imbecilli”, ossia degli uomini che si rifiutano di “rischiare”.

gb. Molti uomini non impegnano mai il proprio essere, la propria sincerità profonda.Vivono alla superficie di se stessi.
Quanti uomini non avranno mai la più piccola idea dell’eroismo soprannaturale, senza il quale non c’è vita interiore. Ed è proprio su questa vita che saranno giudicati. Allora, spogliati dalla morte di tutte quelle membra artificiali che la società fornisce alle persone della loro specie, si ritroveranno quali sono, quali erano a loro insa­puta: degli spaventosi mostri non sviluppati, degli aborti di uomo [58].
E sono i santi, che tengono viva questa vita interiore, senza la quale l’umanità si degraderà fino a morire [59].

malb.  Ma che cos’è per lei la santità?

gb. La santità non ha formule, o meglio le ha tutte. Essa riunisce ed esalta tutte le forze, essa realizza la concentrazione orizzontale delle più alte fecondità dell’uomo.
La vita di un santo non è pertanto una vita sminuita, in cui la mortificazione immiserisce incessantemente, ma è, al contrario, la vita nella sua effusione e,come se fosse allo stato originario, la vita stessa, come una sorgente ritrovata [60].

malb. E che cos’è il contrario della santità?
gb. Non vi è che un errore ed una disgrazia al mondo: è non saper amare abbastanza [61].
L’inferno è non amare più [62].

malb. Il suo universo romanzesco è intriso di angoscia, di follia, di sofferenza e menzogna, eppure non è mai un universo chiuso e – in modo incomprensibile – la gioia vi affiora misteriosamente. Certo non si tratta della facile gioia procurata dal piacere a buon mercato, né di quella perversa gioia che si gusta nella sopraffazione o nell’ipocrisia, ma di una gioia di un altro ordine, una gioia che si origina proprio nel cuore della sofferenza.

gb. La Gioia viene da una parte troppo profonda dell’anima perché le sue radici non affondino nella sofferenza, che è la parte più pro­fonda dell’uomo da quando ha perduto il paradiso [63].

malb. È per questo motivo che la sofferenza è così presente nei suoi romanzi?

gb. Chiunque ricerchi la verità dell’uomo deve appropriarsi del suo dolore, per il divino prodigio della compassione. E da quel momento, che importa conoscerne o no le sorgenti impure? [64].

malb. Cosa vorrebbe dire, signor Bernanos, ad uno sconosciuto lettore triste, sfiduciato, che non conosce il sapore-valore della vita, che non si conosce nella sua verità più autentica?

gb. Mio vecchio compagno, non essere triste!
La strada dinanzi a noi è forse ancora molto bella. Noi vi vedremo sorgere dei grandi mattini, grandi e puri, più grandi e più puri della nostra giovinezza, ormai cancellata. In ogni modo la strada è lì, valga quel che valga, e finirà per scivolare nella dolce eternità [65].

malb. Il suo universo romanzesco è cupo, i suoi scritti «de combat» fortemente violenti, le sue parole, adesso, dolci e luminose. Georges Bernanos, lei è pessimista oppure ottimista?
gb. Il termine pessimismo, ai miei occhi, non ha più senso del ter­mine ottimismo, che solitamente gli si oppone.
Il pessimista e l’ottimista hanno in comune il fatto che non ve­dono le cose così come sono: l’ottimista è un imbecille felice, il pes­simista è un imbecille disgraziato [66].

malb. Per lei dunque ottimismo e pessimismo costituiscono un falso problema. Si tratta piuttosto di conoscere la più vera verità dell’uomo, di credere in Dio, di fidarsi di Lui, di avere il coraggio di sperare.

gb. Già.
L'ottimismo è una falsa speranza, usata dai vigliacchi e dagli imbecilli. La speranza è una virtù, virtus, una scelta eroica dell’ani­ma. La più alta forma di speranza è la disperazione superata [67].
Io so bene che andando coraggiosamente fino al fondo della notte, s’incontra un’altra aurora [68].

malb. Così come nell’esperienza di Charles Péguy, la speranza è per lei un dinamismo essenziale, il nucleo da cui si diparte tutta l’esi­stenza della persona. Lei afferma infatti, nel suo Journal, che man­care di speranza è il più grave fra i peccati.

gb. Speranza: ecco la parola che volevo scrivere.
Il resto del mondo desidera, brama, rivendica, esige e chiama tutto ciò sperare, perché non ha né pazienza né amore; vuole solo godere e il godimento non sa attendere, nel senso proprio del termine: l’attesa del godimento non può chiamarsi una speranza, sarebbe piuttosto un delirio, un’agonia.
D’altronde il mondo vive troppo velocemente, il mondo non ha più il tempo di sperare né di amare né di sognare. Sono i po­veri che sperano, così come sono i santi che amano [69].


malb. Mario Pomilio, nel suo Quinto Evangelio, afferma che il Cristo non ci ha garantito alcuna certezza, ma che è piuttosto venuto a portarci una speranza. Lei cosa ne pensa?

gb. La speranza è una vittoria, e non c’è vittoria senza rischio. Co­lui che spera realmente, che si riposa nella speranza è un uomo che ritorna da lontano, da molto lontano, che ritorna sano e salvo da una grande avventura spirituale, in cui avrebbe dovuto morire mille volte. La speranza è «faire face», affrontare.
Che m’importa sapere se ho o non ho la speranza?
Mi è sufficiente averne le opere. Se ho le opere della speranza, l’avvenire lo dirà. L’avvenire dirà se ciascuno dei miei libri è una disperazione superata [70].

malb. «Faire face, faire front, tenir bon, se jeter en avant» sono alcune fra le parole chiave per entrare nel suo universo, signor Bernanos. È evidente che tale atteggiamento di fronte alla vita si radica in questa sua fede incrollabile, in questo costante rischio di amare, in questa miste­riosa certezza di potere donare, per la fede, anche ciò che non si ha.
gb. 0 meraviglia! poter far dono di ciò che non si possiede! o dolce miracolo delle nostre mani vuote![71]

malb. Le sue mani vuote, la sua pagina affollata di cancellature, il suo cuore, dove ciascuno può entrare quando vuole, la sua fede tutta rischio, la sua umile e coraggiosa speranza: un Georges Bernanos «à la merci des passants»[72].
Io la vedo così. Ma a lei, come piacerebbe essere ricordato?

gb. Pensatemi come una specie di viaggiatore, di avventuriero. Non sono altro, non sono degno d’essere altro e, se entro in cielo, vorrei che fosse in questa qualità di vagabondo[73].


malb. Di questa sua affascinante “povertà” io mi sono arricchita, signor Bernanos, e così spero anche chi leggerà questa intervista.

gb.  Tutto l’oro del mondo non potrebbe comprare la testimonianza di un uomo libero[74].

malb. Grazie! Abbiamo bisogno di persone veramente libere e capaci di dire e testimoniare parole di autentica libertà. Consiglierò a tanti giovani di leggere i suoi libri. Ancora grazie!

~      Ah! dimenticavo… l’autografo!
~      Rimediamo subito.

 



* Pubblicato in "Quaderni di Lingue e Letterature straniere”, Facoltà di Magistero, Palermo, 1992.



[1] Cfr. M. A. La Barbera, Letteratura e dialogo, Centro Stampa Magistero, Palermo 1991.
[2] Cfr. M. Baldini, Parlar chiaro, parlare oscuro, Laterza, Bari 1989. Pro­prio a proposito della critica d’arte, Massimo Baldini non usa il termine in “ese”, come fa per gli altri linguaggi, e parla di «linguaggio oscuro della critica d’arte».
[3] Ivi, p. 104.
[4] Il termine “cuore”, più volte ripreso in questa intervista, viene usato in senso biblico, indicando col cuore la parte più intima della persona, quel centro dove si operano le scelte essenziali (cfr. B. Pascal).
[5] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, in Œuvres romanesques, Gallimard, Paris 1961, p. 1115.
[6] «Se dobbiamo anche rinunciare a trovare un qualsiasi senso alla pa­rola “verità”, alla distinzione fra bene e male, fra giusto e ingiusto, non è più possibile vivere umanamente», scrive Raïssa Maritain, Les grandes amitiés, Desclée de Brouwer, Paris 1988, p. 87.
[7] “Immaginaria” perché non realmente verificatasi, ma non per questo meno “vera”. Tutti i dati, fisici, psicologici, spirituali, come quelli letterari, sono tratti dalla più accreditata bibliografia su Bernanos, finora pubblicata.
[8] Le affermazioni, che costituiscono le risposte dello scrittore nella intervista, sono state interamente stralciate dai suoi scritti, indicati nel riferimento bibliografico.
[9] G. Bernanos, Correspondance, II, Plon, Paris 1971, p. 302.
[10] «Il buon Dio non ha prescritto che noi fossimo il miele della terra, ma il sale. Del sale sulla pelle a vivo brucia. Ma impedisce anche di putre­farsi». Id., Journal d’un curé de campagne, cit., p. 1039.
[11] «Quelli che io chiamo, evidentemente non sono numerosi. Essi non muteranno le cose di questo mondo. Ma è per essi, è proprio per essi che io sono nato». Id., Les Grands Cimetières sous la lune, in Essais et écrits de combat, I, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1971, p. 354.
[12] Vangelo di Giovanni, 1,14.
[13] G. Bernanos, La liberté pour quoi faire?, Gallimard, Paris 1953, p. 299.
[14] «Je vous donne un livre vivant». G. Bernanos, La Grande Peur des bien‑pensants, in Essais et écrits de combat, cit., p. 45.
[15] Citazione riportata in R. L. Bruckberger, Bernanos vivant, Michel, Paris 1988, p. 179.
[16] G. Bernanos, La Grand Peur des bien-pensants, cit., p. 45.
[17] L’indicazione del nome del caffé, frequentato assiduamente da Ber­nanos, è tratta dal testo succitato di R.L. Bruckberger.
[18] G. Bernanos, Correspondance, II, cit., p. 312.
[19] G. Bernanos, Les Grands Cimetières sous la lune, cit., p. 354.
[20] Id., Français, si vous saviez, Gallimard, Paris 1961, p. 18.
[21] Id., Le Crépuscule des Vieux, Gallimard, Paris 1956, p. 35.
[22] Id., Scandale de la vérité, in Essais et écrits de combat, I, cit., p. 602.
[23] Id., Les Grands Cimetières sous la lune, cit., p. 366.
[24] Id., La France contre les Robots, Plon, Paris 1970, p. 89.
[25] Id., Lettre aux Anglais, Gallimard, Paris 1946, p. 184.
[26] Id., Le Crépuscule des Vieux, cit., p. 36.
[27] Id., Les Grands Cimetières sous la lune, cit., p. 351.
[28] Id., Journal d’un curé de campagne, cit., p. 1101.
[29] Id., intervista di André Lang dell’1-01‑1930, riportata nel testo di J.L. Bernanos, Georges Bernanos à la merci des passants, Plon, Paris 1986, p. 209.
[30] Id., Les Enfants humiliés, in Essais et écrits de combat, cit., p. 901.
[31] Ibidem.
[32] Id., Français, si vous saviez, cit., p. 315.
[33] Id., Correspondance, I, cit., p.162.
[34] Id., Correspondance, II, cit., p. 621.
[35] Ivi, p. 589.
[36] Id., Correspondance, II, cit., p. 241.
[37] Id., Les Enfants humiliés, cit., p. 868.
[38] Ivi, p. 875.
[39] Id., Les Grands Cimetières sous la lune, cit, p. 354.
[40] Id., Lettre aux Anglais, cit., p. 177.
[41] Id., Lettera del 1926, citata in Essais et écrits de combat, cit., p. 1050.
[42] Il linguaggio dell’infanzia è uno dei percorsi più idonei per penetrare nell’universo di Bernanos. In questo volume, vedi cap. I, 1.3, Lo spirito d’infanzia.
[43] Id., Les Grands Cimetières sous la lune, cit., p. 355.
[44] È quanto afferma P. Gille in Le Logos de l’écriture, «Études berna­nosiennes», 17, Lettres Modernes Minard, Paris 1984, p. 86.
[45] Id., Correspondance, II, cit., p. 445.
[46] Id., p. 250.
[47] Id., Journal d’un curé de campagne, cit., p. 1258.
[48] Id., Jorge de Lima, in Essais et écrits de combat, cit., p. 1314.
[49] Id., Dialogues des Carmélites, in Œuvres romanesques, cit., p. 1633.
[50] Id., Journal d’un curé de campagne, cit., p. 1222.
[51] Id., Dialogues des Carmélites, cit., p. 1601.
[52] Id., Journal d’un curé de campagne, cit., p. 1258.
[53] Id., Note tratte dall’Agenda 1948, riportate in A. Béguin, Bernanos par lui-même, Seuil, Paris 1956, p. 146.
[54] Id., Correspondance, I, cit., p. 76.
[55] L’affermazione citata è di Dom Paul Gordan, riportata da J.L. Ber­nanos, Georges Bernanos, cit., p. 379.
[56] G. Bernanos, La liberté pour quoi faire?, cit., p. 143.
[57] Id., Journal d’un curé de campagne, cit., p. 1034.
[58] Id., p. 1115.
[59] Id., La libertè pour quoi faire?, cit., p. 230.
[60] Id., Saint Dominique, in Essais et écrits de combat, cit., p. 4.
[61] Id., Nous autres Francais, cit., p. 694.
[62] Id., Journal d’un curé campagne, cit., p. 1163.
[63] Id., Correspondance, II, cit., p. 54.
[64] Id., Cécile Sauvage, in Essais et écrits de combat, cit., p. 1104.
[65] Id., Correspondance, I, cit., p. 494.
[66] Id., La liberté pour quoi faire?, cit., p. 15.
[67] Ibidem.
[68] Id., Correspondance, II, cit., p. 370.
[69] Id., Les Enfants humiliés, cit., p. 899.
[70] Cfr. J.L. Bernanos, Georges Bernanos, cit., p. 415.
[71] Id., Journal d’un curé de campagne, cit.,  p. 1170.
[72] Id., Les Enfants humiliés, cit., p. 879.
[73] Id., Correspondance, I., cit., p. 196.
[74] Id., Jorge de Lima, cit., p. 1316.