RACCONTO DIARIO RIFLESSIONE - 20 settembre 2010

Io la seguivo da sempre. A distanza ravvicinata o incalcolabile, sempre avevo camminato sulle sue orme. Io timida, insicura, rigorosa. Lei vulcanica, materna, passionale... sognatrice.

Aveva vissuto decenni ad ascoltare, Lei.
Incontrare persone, ascoltare interminabili discorsi e insostenibili silenzi, accogliere, com-patire mille storie intrise di lacrime e sogni. Storie di adulti, ma soprattutto di giovani. Aveva vissuto inventando per tutti spazi d’incontro sempre nuovi e gioiose occasioni di festa.
La sua storia, giorno dopo giorno, era sempre stata rinnovata da imprevedibili innesti. E Lei diveniva così pero e melo, mandorlo carrubo ciliegio… e ficodindia, per eccesso di spine ingoiate.
Si sa che c'è un tempo per ogni cosa: un tempo per tacere e uno per parlare, uno per piangere e uno per ridere. Ma quando, dopo aver tanto ascoltato, era giunto per Lei il tempo di raccontare, si accorse che intorno non c’era nessuno.
Ma io sapevo bene che Lei non si sarebbe arresa.

Da bambina, a parte lo spazio-tempo sereno dei primi anni di scuola, aveva ingoiato un quotidiano grigiore soffocante e il mutismo velenoso che trasudava dalle pareti della casa dove abitava rendeva palpabile il lutto per la parola vera. Aveva conosciuto i ladri dei suoi sogni! Tra le sue, aveva tenuto le mani di tanti che avrebbero stracciato i suoi aquiloni e disciolto nell’inchiostro melmoso i suoi saltellanti arcobaleni… ma Lei aveva continuato a stupirsi dell’umiltà dell’erba e della luce solare delle ginestre. La danza salata delle alghe e la zagara in festa negli agrumeti assolati la nutrivano più del pane. Gli occhi dei bambini erano poi il suo oceano; vi s’immergeva dentro, e giù, sempre più giù, fino al cielo.

E così, arrivato per Lei il tempo di raccontare e non trovando nessuno disposto ad ascoltare, non le fu difficile custodire gelosamente il suo disagio; si era ben allenata a non appoggiarsi su nessuno, anche nelle situazioni più tenebrose.
L’orgoglio e la timidezza, ben elaborati, erano divenuti in Lei riservata e delicata fermezza.
Ora si sentiva traboccante di vita. Ma le molte storie che avevano intessuto la sua storia, cominciavano ad impedirle di individuare con nitidezza i suoi tratti. Urgeva in Lei l’esigenza di ritrovare se stessa nella sua verità originaria, ma anche di vedere lontano, di spingersi al largo, di volare alto. Non voleva rischiare l’amnesia, Lei. Sapeva bene che, se si perde la nostalgia del Tutto, ci si disperde, ci si perde nel niente.
Voleva davvero ritrovare se stessa? Abbracciare il suo “io”? Sognava d’incontrare Dio? Forse era rimasta anche Lei intrappolata nella rete dei falsi interrogativi?
No. Lei aveva imparato a non considerare credibili delle soluzioni fotocopiate, che pretendono di rispondere alle domande primarie. Era convinta che ci fossero solo percorsi da percorrere, rischi da rischiare. Parole da tacere e silenzi da far parlare.
Io, sempre esitante, mi chiedevo che cosa avrebbe fatto questa volta.
L’esperienza le aveva fatto comprendere che per vivere un incontro occorre essere presenti. O presenza o maschere. Il fascino di essere non puoi acquistarlo in nessun centro commerciale. È conquista. È esperienza profonda del sé e del tu. Gioia inebriante del noi.
E, ancora una volta, Lei mi stupì.
Decise infatti di scrivere una lettera ai suoi figli (rivolta anche ai giovani che le erano stati accanto per tanti anni). La scrittura non è forse uno spazio privilegiato d’incontro, rispettoso dei tempi e del sentire di chi scrive e di chi legge?
 Ecco il testo della lettera:

             Figli miei amatissimi,
da molto tempo avrei voluto scrivere questa lettera, ma…  Adesso è giunta l’ora! E non voglio che passi invano. L’ora della coerenza e della lucidità, l’ora segnata dal tempo interiore.  Già, perché il tempo dell’orologio vola via così freneticamente! Voi – purtroppo – guardate di continuo le lancette e siete sempre di corsa, sempre troppo presi dalle mille cose che intasano la vostra vita. Centrifugati! E non avete mai il tempo di ascoltare un’anziana madre che vorrebbe parlarvi, condividere con voi sogni e paure, non avete mai il tempo (o forse, oltre il tempo, vi manca anche il desiderio?) di darle un consiglio o una carezza…
Eppure siete cresciuti nell’abbraccio caldo e costante dell’amore gioioso, avete succhiato latte e attenzione, premure e sorprese… E doni, tempo, energie, inventiva. Giochi e colori.
Infanti, bambini, ragazzini vi ho donato tutto di me, ma forse non ve ne siete accorti. Forse sono stata “troppo” discreta, non vi ho fatto mai neppure intravedere il desiderio che avevo del vostro sorriso, del vostro sguardo, del vostro apprezzamento. Devo constatare che sono stata (e continuo ad essere) davvero brava nel non comportarmi da classica mamma sicula ossessiva. E già…, proprio “troppo” brava!
Sempre verso di voi e sempre più verso tutti, ho smesso di occuparmi di me e mi sono non solo trascurata, ma del tutto dimenticata.
«Ama il prossimo tuo come te stesso»: ho sempre trasgredito questo invito del Maestro e ho sbagliato, ma… non mi pento di averlo fatto.
È vero. Sono andata così lontana dal mio centro da rischiare di perdermi.
Mi sono così ignorata da rischiare di non sapermi più ri-conoscere.
Ma è l’egoismo che necrotizza le pieghe del cuore, mentre l’amore ne guarisce le piaghe. E così, pur sbagliando, la mia tenda si è allargata e vi ho ospitato mille sguardi, vi ho fecondato tante vite. Si sono moltiplicati i figli… e non solo.
Adesso, dopo tanti travagliati parti e dolorose partenze, dopo incomprensibili e inattesi tradimenti, dopo aver così tanto viaggiato nelle vostre storie  – e in quelle di tanti altri giovani –, forse un po’ ingolfata, ma tanto arricchita!, intraprendo il mio cammino verso le origini, verso il mio centro, verso di me.
O Dio, come sono andata lontano! Troppo lontano! In questo tempo, che  dovrebbe essere per me il tempo del riposo, devo invece camminare, e tanto. Camminare all’indietro, scendere dentro, risalire su…
 Ma adesso è l’ora del mio poema, lo spazio in cui le parole devono scavare sconfinati silenzi fra grazia e libertà.
È l’ora della pausa scandita da ogni amore nudo, che si situa fra distanza e complicità.
È l’ora della Ruha, del soffio vitale che reclama di essere inspirato, interiorizzato, espirato.
           
Figli miei, devo ringraziarvi. Da voi mi viene un destino di canto, anche se non suonate più per me. Voi avete irrobustito le mie ali, per questo volo decisivo, costringendomi ad essere coraggiosa e paziente, decisa e inventiva. E soprattutto fedele.
Ricordate quella indimenticabile sera di Natale? Fu gioia inesprimibile quando mi costringeste a salire, me che barcollavo dopo una seduta di chemioterapia, su una sedia: "Mamma chiudi gli occhi e apri la mano!". Non capivo, ma feci quel che mi dicevate. Al riaccendersi  della luce, riaperti gli occhi, mi trovai tra le mani una enorme coppa, luccicante, una coppa da 1° classificato. Lessi la frase che avevate fatto incidere nella targhetta:  "All’ammalata più brava del 1994". Un ricordo, fra tanti altri, che mi rinvigorisce, in un oggi in cui ho bisogno di nuove energie.
Adesso ho dolori alle gambe, appesantite dalle troppe corse per venirvi dietro, ma discendo più veloce nel pozzo dei miei sogni.
Mi bruciano gli occhi, per gli incessanti tentativi di captare qualche vostra anche piccola attenzione per me, ma l’azzurro dell’iride non si è per nulla sbiadito.
Le mani, scavate nel preparare innumerevoli pacchi-dono variopinti ormai non più apprezzati, sono ancora oggi capaci di sorprese.
Dopo aver sofferto fame e sete di tenerezza, adesso che sono a dieta per trovare la mia forma fisica – ma anche perché sto sradicando residui di corde e di “cordoni” – ho smesso di pesare le vostre briciole d’affetto. Il mio vuoto adesso è pieno. O, forse, il mio troppo pieno è vuoto, così da donarmi una leggerezza interiore dove è possibile , anche sulle ferite, innestare robuste ali per nuove avventure.
Con un foglio e una penna scavo nel mio deserto cunicoli profondi e colorati da mille profumi e sapori, che sono certa di avervi donato e che, prima o poi, ricorderete.

Questa è per me l’ora della vendemmia. Vi offro i miei grappoli, resi succosi dalle mille esperienze, dalle tante lacrime, dai faticosi sudori. La vita mi ha dato tanto, ma mi ha anche negato molte cose, che per altre donne sono scontate. No, non temete! Nessuna voglia d’intonare adesso stucchevoli litanie. Ho scelto di essere quel che sono stata. Scelgo ora di essere quel che sarò, nella continuità e nella novità.
Il tempo dell’orologio trascorre anche per me e non so quanti giri rimangono da fare alle mie lancette. Adesso è l’ora dell’incontro decisivo. L’ora dell’incontro con me.
Odo l’eco di una voce che voglio riascoltare… giù, nel profondo… una parola antica e sempre nuova. Voglio che quella parola mi trasfiguri fin nelle viscere e mi ridoni terra alla terra, senza rovi. Che mi ridoni acqua al cielo e al mare, nella danza dell’onda eternamente accesa. Una voce. Una parola da incontrare, da ascoltare, da cantare. Perché non c’è incontro profondo senza complicità. Ed io voglio che quest'altra me stessa, oggi un po' sbiadita (che sono sempre io), sia una cosa sola con me. 
In gioiosa letizia.     
             UN INCONTRO APPENA MORMORATO BASTA PER ILLUMINARE LA NOTTE  

°   °   °
Lei non ricevette alcuna risposta. Nessuna risonanza. Neppure uno sbadiglio. 
Non era la prima volta che lanciava messaggi in pozzi muti, ma come sempre, invece che accartocciarsi sul suo io ferito, immaginò un nuovo spazio di comunicazione.
E fu per me, sempre riservata e apprensiva, una nuova sorpresa: Lei aprì un blog. Un blog per donne sessantenni.

    RACCONTIAMOCI, PER RITROVARE LA VERITA DEI NOSTRI 60 ANNI
  
E prese la parola...,  o meglio la tastiera del suo pc. Ecco lo scritto con cui Lei inaugurò il suo blog:
   

                         Alghe, zagara, vento di ginestre…


Riassaporo i profumi che mi hanno vellutato la pelle e, penetrati dentro, mi hanno irrorato sogni e vita.
Vento di mare e cielo ho respirato.
Là dove l’orizzonte era interrotto solo da danze d’ali in contrappunto, lassù in cima.
O dentro l’onde.
Inzuppato di sole e sale, il mio corpo rimbalzava canterino sul gommone odoroso di creme idratanti e di esche di gambero. Profumi e canto.
L’incanto poi, quando al mattino, l’alba rosseggiante s’infiltrava nella cerniera della canadese rossoblu, dove a sera sdraiavo i miei sogni sopra uno scomodo materassino di gomma che sapeva di sabbia, di alghe e di sudore, ma dove navigavo per ore in un sonno gravido di gioia. Uscita dalla tenda, entravo con meraviglia nuova nella luce travolgente di un altro giorno, tutto da inventare.
Furono quelli anni colorati che seguirono il diffuso grigiore della mia non-infanzia.
Sull’1 a 1 giocato fra lacrime e allegria, iniziò la partita. Quante strategie studiate! Quanti scontri, tiri, rigori mancati e quanti goal! Cos’ho fatto? Chi sono stata? Ho veramente amato? Chi? Quante volte? Amavo o cercavo me stessa? Come? Perché? Quale moviola potrebbe captare sicuri fotogrammi di tale irripetibile partita? È certo che ho corso per mille strade, stringendo tante mani, incontrando sguardi solitari, sollevando corpi inariditi, ascoltando dolorosi silenzi e pronunciando parole capaci talora di rotolare la pietra di squallidi sepolcri. Giovani senza sorriso cercavano in me uno spazio abitabile, e io lì a costruire dimore adeguate, dove ciascuno potesse riapprendere a sognare.
Leggevo la vita nella loro vita e sui libri, ascoltando la divina Parola, per poter allargare sempre più la mia tenda interiore. I lati del perimetro si sono dilatati a dismisura. Dove sono ora i paletti?
Ho rischiato anche il rischio. Ho perso molto, ho guadagnato di più. Ho conosciuto l’ignoto, ho vissuto, nella mia, molte altre storie. Condividendo la sofferenza, ho reso trasparenti gli interstizi del mio essere intasati da banalità e insignificanza.
Oggi, per essere sicura di non aver fantasticato, riprendo tra le mani i tanti segni custoditi con tenerezza: fogli, biglietti, foto… sì, è stato tutto vero. Possiedo un tesoro: la mia storia. Un’acqua viva che nessuno potrà mai inquinare né privatizzare. È sempre stata e sempre sarà un’acqua per tutti, ma oggi deve anche essere un’acqua per me, vitale e salutare in questo nuovo tempo da abitare. Ho continuato a strappare, impietosa, gli strati superficiali della mia persona, pelli morte, maschere accattivanti, a volte così comode per difendersi dai predatori… E sono rimasta nuda. Nuda e vera.
Tanta leggerezza mi rende assai fragile… ma solo così potrò davvero volare. Il mio centro di gravità non è più soltanto nel cuore degli altri, ma anche verso il mio io. Nel cuore di Dio.
Le mie mani vuote possono oggi stringere anche i ricordi dolorosi senza sanguinare troppo. E sono più libera di leggere e scrivere, in ogni giornata, quella vita eterna che è possibile vivere già da oggi, finalmente riconciliata con me stessa.
                                                 
                                 Ormai rosseggia il sole all’orizzonte / scende la sera.
                                    Neanche il gabbiano vede più il pesce saltellare.
                                             Sì, devo amare. Anche me stessa.
                                                               IO è IO.

                                                                 *  *  *

Le parole di Lei, la contempl-attiva, erano più prossime a me di me stessa. Perché? Sentii salmodiare in me l'alleluia sulivaniano, così umano, così divino: «Cantiamo in semplicità la gloria dei limiti!» Mi sgorgò immediata una risonanza. Inserii nel suo blog un mio post.

                                                                  *  *  *

Mangiava il giallo degli agrodolci cresciuti all’impazzata intorno alla siepe degli asparagi. Bocconi di zagara sulle labbra e nei sogni.
Beveva spicchi di sole tra gli agrumi e cercava la chiave smarrita sotto i trifogli.
Dispersa tra mutismi e liti, Lei aveva un segreto: un centro, un punto, un oggi eterno da cui leggeva ogni evento, da cui partiva un filo ininterrotto che aveva intessuto la sua storia.
Avanti e indietro, grigio e colorato, il filo aveva ormai ricamato un incredibile disegno con curiose figure e insoliti colori. Quasi nessuno riusciva a intravedere quel punto.
Ci sarà forse un tempo in cui potrà condividere il segreto. Il disegno, il sogno e i colori.                                          
                                                                                                  
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Disegno, colori e sogno erano i medesimi. Bastarono quelle righe trascritte da un diario per riconoscersi. Tra i post di un blog, il nostro fu un incontro decisivo. Una e unica la nostra parola interiore. Tutta un'esistenza per arrivare ad essere nient'altro che "un ciuffo di piume con una canzone dentro".

LEI e IO, finalmente riconciliate in un abbraccio completo.
Quale profonda verità nelle parole di Bernanos:
«È grazia dimenticarsi, ma la grazia delle grazie è amarsi umilmente, sé e tutti, insieme, membra sofferenti e risorte del corpo di Cristo».

                                                                       
                                                                  *    *    *

* Con questo racconto ho partecipato per la prima ed ultima volta ad un concorso letterario, il Premio TRINACRIA ADDAURA e mi sono classificata al 1° posto.
La premiazione ha avuto luogo il 20 settembre 2010.