Ogni realtà ha una sua storia. Se la
conosciamo, quell'oggetto, quell'evento, quella persona acquisisce spessore,
risplende di una bellezza che altri non possono scorgere. Così è di quest’alberello
di nessun pregio estetico, ma la cui storia è talmente intensa da renderlo, per
chi lo “conosce”, qualcosa di speciale.
°
° °
Da quando
avevo sei anni, trascorro i mesi estivi in una zona a venti minuti da Palermo,
la mia città. Il luogo, a circa 600 metri di altezza, è chiamato San Martino
delle Scale.
Cinquant’anni
fa sembrava un presepio permanente, poche case, un lavatoio, enormi cespugli di
more, qualche albero da frutta e pini. Stupendi, maestosi pini e abeti, di
differenti specie, rendevano il paesaggio davvero riposante e l’aria fortemente
ossigenata. A poche centinaia di metri dal gregge di case, un’abbazia
benedettina medioevale, nei secoli centro di cultura e di vita per la borgata.
Sulla sinistra della piazza una stradina s’inerpicava più in alto. Dalla conca
collinare in cui giaceva il paesino, andando su per quasi quattro chilometri,
si giungeva ad un’altezza di circa 800 metri, dove sarebbe sorto il “Villaggio
Montano”, la parte elevata di San Martino. Boschi di conifere, conigli,
farfalle variopinte e splendidi ciclamini costituivano la scenografia che per
decenni ha rallegrato il mio sguardo, posato oltre che sulla flora e sulla
fauna anche sullo splendido golfo di Palermo, semiarco azzurroblu abbracciato
dalle montagne verdeggianti. Nessun rumore al di fuori del belare delle pecore
e del muggito delle vacche, modulato sul suono dei campanacci. E un
ininterrotto concerto di cicale, ritmato da armoniosi voli chiacchierini.
Bambina,
non sapevo, non capivo il valore degli alberi, di ogni albero. Mi sembrava normale
tutto quel verde, maestoso e così a portata di tutti, capace di creare spazi di
rifugio, di sosta, di giochi profumati.
Poi è
giunto il progresso, che in sé sarebbe una cosa bellissima se non fosse
collegato con l’avidità del denaro e l’arroganza. La logica mercantile si è
andata insinuando un po’ dovunque, nelle metropoli come nei luoghi eremitici,
nelle piazze e nei cimiteri. Soldi, produzione e soldi, nient’altro. E così gli
alberi sono diventati uno dei tanti bersagli di una mentalità malata, che non
sa più porre cose e situazione in un ordine umano. L’albero, l’aria pulita, un
bosco, non producono denaro in modo facile e rapido. Altro che salvaguardia
della natura, rimboschimento e riserve naturali. Molti, troppi “interessi” sono
concentrati sull’abbattimento delle piante per… far spazio alla civiltà!
Ogni
estate, chi è rimasto fedele alla sosta estiva in quella località, è costretto
ad assistere, impotente, allo scempio. Una o due volte, luglio o agosto, un po’
qui e un po’ lì, qualche brandello di pineta, ancora miracolosamente sopravvissuta,
viene ridotta in cenere in pochi minuti. Forme, suoni e colori svaniscono.
Fiori e frutti si accartocciano. Animali e persone sono costretti alla fuga.
Tronchi monumentali si schiantano al suolo come stuzzicadenti. Il fuoco divampa
selvaggio, alimentato da un forte vento che, quando comincia a soffiare al
mattino è, purtroppo, segno premonitore di quanto accadrà nella serata. Si
ripete un copione drammatico. E con singolare violenza, avvenne anche
quell'anno.
17 agosto
1994. Verso le 22, la notte diventa “infuocata“. Il cielo in pochi istanti si
trasforma in un’immensa fornace. Sembra d’essere nei pressi di un cratere: le
fiamme s’inseguono a velocità impressionante. Arbusti, alberi e foglie d’ogni
genere crepitano tragicamente in un caotico concerto di morte. Bisogna
abbandonare le case, immerse in una coltre di faville e fumo incandescente. Il
fuoco è stato appiccato in più punti e, a causa delle raffiche di vento, è
impossibile controllare le fiamme. Terrore e rabbia soffiano più violenti dello
scirocco. Qualcuno prega.
Come in tutte le situazioni fortemente drammatiche, ciascuno si manifesta nella sua verità più profonda: chi pensa a portar via da casa quel che può, chi fugge, chi si dà da fare, come meglio riesce, escogitando strumenti e possibilità per salvare il salvabile: le proprie cose, certo, ma anche quelle della comunità. Giacché un bosco è una ricchezza per tutti. E lì a colpi di ramazza e di picconi per far tacere il fuoco, per spegnere i focolai, gettando acqua sulle radici degli alberi non ancora del tutto abbrustoliti.
Come in tutte le situazioni fortemente drammatiche, ciascuno si manifesta nella sua verità più profonda: chi pensa a portar via da casa quel che può, chi fugge, chi si dà da fare, come meglio riesce, escogitando strumenti e possibilità per salvare il salvabile: le proprie cose, certo, ma anche quelle della comunità. Giacché un bosco è una ricchezza per tutti. E lì a colpi di ramazza e di picconi per far tacere il fuoco, per spegnere i focolai, gettando acqua sulle radici degli alberi non ancora del tutto abbrustoliti.
Così, in
una notte mortifera, una viscerale solidarietà germina nel fuoco, tenerissima
scintilla di speranza. Già, sempre e dovunque c’è un “resto”, capace di
continuare ad amare.
Sul mio
terrazzo, nei giorni precedenti al grande incendio, una pianta di ibiscus ci
regalava stupendi fiori rossi. Le fiamme quella notte avevano fasciato il
terrazzo e la pianta era stata spogliata, tronco incenerito, foglie raggrinzite
come i fiori. Ma un bocciolo era rimasto sul ramo, misteriosamente, rosso fuoco
a cantare che tutto è sempre possibile.
Questo lo
scenario su cui prende forma “la storia dell’albero”.
p.s. Forse il preludio, nell’economia del
racconto, potrà apparire eccessivamente esteso. Ma cos’è una storia senza
storia?
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L’anno
seguente all’incendio descritto, un pomeriggio, mio figlio mi dice: «Mamma,
guarda sopra la montagna». Di fronte casa mia si stende armoniosamente una
stupenda collina, nella mia infanzia favoloso mare verde ondeggiato dal vento,
di cui oggi non rimane che il riverbero nella mia sbrindellata memoria. Nessuna
traccia di quel che fu un bosco, all’infuori dei sentieri che prima
s’inoltravano tra funghi e ciclamini, adesso solo pietraia luccicante al sole.
Anche quella montagna è stata denudata e rudemente violentata. Neppure un
albero sulla collina che, in passato, era stata una delle più lussureggianti pinete
del Villaggio. Sassi e pietre nel mio sguardo.
‒ Mamma,
guarda sopra la montagna, sulla cima. Non vedi niente?
In
effetti non scorgevo che un’esile sagoma simile a un paletto da recinzione, che
non avevo mai notato.
‒ Perché,
Francesco, cosa c’è?
Secondo il suo stile essenziale, mio
figlio sintetizza: “Sono salito con Roberto e Gabriele, la carriola, la
terra, la zappa e un cipressino nato
in zona. L’abbiamo trapiantato là”.
Sulla
cresta di quella collina, schiaffeggiato dal vento, l’albero-paletto appariva
inerme e poco fortunato. Sarebbe potuto crescere altrove, sprofondando le
radici nella terra, rinforzando ed allungando il suo tronco, regalando al sole
rami e gemme. Ma non sarebbe stato che un albero fra gli alberi.
Lì, sulla
cima, quel piccolo cipresso è diventato per molti un segno di rinascita. Una
voglia e un’urgenza visibile di affermare che la vita è più forte di ogni
violenza e che vale la pena tentare, resistere, fare delle “follie”, anche
quando tutti ti dicono che “tanto non serve a niente”.
Gli
incendi continuano infatti a cadenzare le nostre estati, ma quell’albero è lì.
Ha segnato un percorso. Amici che d’estate vanno e vengono da casa nostra sono
saliti sulla montagna per portare il loro contributo d’acqua. I primi mesi, in
particolare, le radici dovevano essere alimentate. In cima non terra fertile,
ma sassi impenetrabili e spine d’ogni tipo. Si decideva di salire. Ognuno con
la sua bottiglia o bidoncino colmo fino all’orlo e la gioia di collaborare per
far crescere la pianta. “Voglio salire anch’io”. E il gruppo s’infoltiva.
Giovani e
anziani in montagna, lungo un sentiero abbastanza semplice all’inizio, ma che
poi si concludeva ai piedi di una pietraia. Nessuna pista segnata. Duecento e
più metri di salita, tra massi e spine, come capre, da percorrere senza
appoggio e senza neppure l’ebbrezza del traguardo che si avvicinava. Già,
perché, a causa della conformazione del terreno, più salivi e più l’alberello
si nascondeva. All’inizio della scalata finale non era più visibile e ci si
continuava ad arrampicare solo nella certezza che l’alberello era lì.
Finalmente
la sagoma un po’ malconcia si delineava. Quasi secco lato vento. Ma qualche
gemma sulla cima diceva la vita, la crescita, nonostante tutto. Ce la faceva. Certo non era rigoglioso l’albero e non lo
sarà mai data la postazione, ma il suo compito non è di fare ombra ma di
elevare, nel centro del cielo, il canto della speranza, sfida alla dilaniante
potenza del male, sussurro lieve di una energia vitale mai del tutto eliminata,
nota di tenerezza in un contesto violento. Lì, sulla cima. Traccia da
sventolare dall’alto. Allora come oggi.
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Tra i molti, un episodio mi ha scavato dentro e mi ha regalato un “bidoncino” di sapienza.
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Tra i molti, un episodio mi ha scavato dentro e mi ha regalato un “bidoncino” di sapienza.
I primi
giorni dopo il trapianto del cipresso, si erano dovuti improvvisare dei turni.
In uno dei pomeriggi in cui non c’era nessun volontario, mio figlio, all’ora
del tramonto, si era caricato del suo capiente e altrettanto pesante
contenitore d’acqua, e su, verso l’albero. Devo dire che questa scena tutte le
volte che si ripeteva, suscitava in me una profonda commozione. Pensare che un
giovane ventenne, in vacanza dopo un anno di studio trascorso fuori casa,
decidesse di salire su, da solo, con l’unico obiettivo di irrigare un alberello
a rischio, mi comunicava una tenerezza ed un’urgenza di fermezza non
traducibili. Lo osservavo mentre saliva, per un tratto lo seguivo con lo
sguardo, poi solo a fatica scorgevo la sua figura e il suo passo veloce.
Un giorno
vidi che, poco distante da lui, altre due persone facevano lo stesso percorso.
Pensai si trattasse dei suoi amici che, in ritardo, avevano deciso di salire
anche loro. Ma vedevo che i due tenevano una strana andatura. Non di chi stava
per urlare: “Fraaanceeesco! Aspettaci, che stiamo arrivando”. Pareva che
lo seguissero, ma a distanza. Prendo il binocolo. Intravedo più chiaramente due
persone che non conosco. Chi sono costoro, a quell’ora, sulla montagna? Timore.
Francesco giunge in cima e versa la sua acqua ai piedi dell’albero. Lui non si
era accorto di nulla. Dopo qualche secondo giungono i due. Il bidoncino è a
terra, ormai svuotato. Vedo che parlano, in modo concitato, ma non qualche
parola. Parlano a lungo. Mio figlio fa dei segnali, discute animatamente,
afferra il bidoncino, indica la nostra casa. Dopo interminabili minuti, avvisto
una stretta di mano e i due iniziano a scendere. Mi tranquillizzo un po’, ma
ancora non ho idea di cosa sia avvenuto.
Passo
svelto più che mai, mio figlio mi raggiunge, visibilmente sconcertato e insieme
divertito. Aveva dovuto faticare molto per far credere ai due addetti alla
salvaguardia dei boschi che si trovava in cima per irrigare un malconcio
alberello, che lui aveva piantato lì, sulla vetta della montagna, che lui
irrigava regolarmente.
‒ Ma
vuoi scherzare? cosa vorresti farci credere?! acqua nel bidone? per irrigare un
arbusto mezzo secco? ma non potresti trovare una spiegazione meno assurda?!”
Del tutto
incredule, e poi fortemente deluse, le due guardie forestali, assolutamente
certe di aver fatto il colpaccio: proprio davanti a loro il piromane della
stagione. E pure col bidoncino in mano...
È
innegabile. La realtà è spesso più inimmaginabile della fantasia. Su in
montagna, per un albero, nel bidone non puoi averci messo acqua. Benzina sì. È
più “normale”!
Come spesso
le apparenze sono più convincenti della verità! Ma ciò che è autenticamente
vero scava sotterranei percorsi, invisibili come i filoni d’oro, come i fiumi
che s’intrecciano nel sottosuolo e lo rendono fecondo. Tracce di ricchezza e
vita, segni di possibile vittoria sulla morte. Sussurri di speranza. Come
quell’alberello, lì, sulla cima.
Lì sulla cima svetta quel cipresso
nel vento e tra le pietre fa radici.
Dall’alto viene detta, ancora e sempre, la parola
dell’impossibile.
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p.s. Ormai da parecchi anni non sono più fisicamente in grado di fare la scarpinata per andare a trovare l'alberello. Quando Francesco e famiglia - e amici, quando sono con noi - salgono sulla cima, li seguo con lo zoom della macchina fotografica, - dovrò ricomprare un binocolo! - e riprovo quell'intenso stupore di sempre, arricchito dalla bellezza della fedeltà.
Vivere è PRENDERSI CURA DI...
* L’alberello è stato piantato dopo l'incendio che ha devastato il Villaggio Montano nel 1994. Oggi ha ventiquattro anni e resiste al vento e alla solitudine, in attesa della visita annuale che continua a ricevere. La foto è di qualche giorno fa, 4 agosto 2019.
* Il testo è stato da me
elaborato nel 1998.
Oggi, nel venticinquesimo dell'incendio, ho aggiunto la foto dell'ultima visita della settimana scorsa, da me seguita con la macchina fotografica.
Oggi, nel venticinquesimo dell'incendio, ho aggiunto la foto dell'ultima visita della settimana scorsa, da me seguita con la macchina fotografica.