Ogni 40 giorni ero costretta a
quel soffocante rito dell’attesa. A quando la “condanna a morte”? Dopo quattro anni dal suo intervento al seno,
a mia madre era stata diagnosticata una metastasi ai polmoni. Aveva 57 anni. Ero
io, la forte della famiglia, a recarmi a ritirare gli esami di controllo e in quegli
attimi-minuti-ore le lancette dell’orologio, pur girando regolarmente, per me si
arrestavano. Quegli spazi di tempo fuori del tempo si assommarono e mi scavarono
dentro spelonche di paure. Una nuvola di interrogativi sovrastava il mio pozzo
d’incolmabile solitudine, abitato da ombre bianche di camici frettolosi e da
odori nauseabondi di veleni somministrati con disinvoltura sotto etichette di medicinali
salvifici.
Mia madre spirò tra le mie braccia vacillanti, corpo straziato da cinque anni di angoscia e dagli ultimi otto mesi di sofferenze, durante i quali aveva perso anche la lucidità mentale,
probabilmente a causa di una chemio devastante.
Fu per me come un tatuaggio
dell’anima, ma non sempre l’esperienza della morte ci risveglia dal nostro
torpore spirituale. Siamo davvero sordi e miopi.
Dopo dieci anni, eccomi dal medico
di base con mio figlio Francesco, per un certificato di esenzione dall'ora di ginnastica. Dato il rapporto familiare, cominciai
a lamentarmi con tono scherzoso: “Dottore,
ma come devo fare? mi sento sempre stanca e poi la testa… un frullatore!” In
tanti anni, non era mai successo che, visitandomi, mi palpasse sotto le ascelle,
ma quel pomeriggio lo fece e nessuno saprà mai per quale ragione.
Già, di quel
che accade quando deve accadere non conosceremo mai il perché.
Vidi il suo viso
scolorire e, molto seriamente, lui che era solitamente brioso, sentenziò: “Lei domani va a farsi la mammografia”.
Questa volta non avevo bisogno di attendere l’esito dell’esame: la diagnosi era
stampata sul suo volto. Avevo 47 anni. Erano arrivati per me “i giorni del rischio”.
Rischiare di morire, certo, ma non
era quello che m’impauriva; prima o dopo accade a tutti, non solo agli ammalati
di cancro. Rischiare di veder deturpata la mia femminilità, ma neppure questo
era il mio problema: i capelli sarebbero ricresciuti; quanto al seno era per me un non-problema. La difficoltà da affrontare era un'altra. Avevo
paura, tanta, ma la mia era piuttosto “paura di perdermi”. Trascrissi sul mio
diario il pressante interrogativo di quei giorni: “Come farà Maria Antonietta a restare Maria Antonietta senza essere più
Maria Antonietta?”
Non sempre l’esperienza aiuta nella vita. Il percorso vissuto
con mia madre rendeva tutto ancora più faticoso. Avevo già attraversato quei
baratri del nulla, anche se in altro ruolo; ora toccava a me quell’amaro gusto
di sentirsi “condannata”: intervento, chemio, radio. E poi? Poi controlli e
protocolli più o meno fotocopiati, malesseri di ogni tipo e, a causa delle difese
immunitarie fiaccate, patologie differenti (linfangite, tiroidite, meibomite, ecc.)
resero variegate le mie stagioni.
“Ma quanto tempo mi resta?”
Per quanto colti e intelligenti – se mai davvero lo
fossimo – spesso manca la consapevolezza, responsabile e gioiosa, dell’attimo
fuggente. Nello stressante quotidiano andirivieni, raramente si percepisce che
ogni istante è una molecola d’eternità in cui tuffarsi per dire “Sì alla vita”, mentre si vive. Ma si
vive? Chi “vive”? Troppo spesso, fasciati dai luoghi comuni, si rimane seduti
sul proprio sepolcro, imprigionati nel filo spinato del proprio “io”. E non
solo i luoghi comuni e la superficialità. La sofferenza fisica certamente induce
a raggomitolarsi in sé come un truciolo di legno sul suo vuoto e una donna ammalata
di cancro al seno questo rischio lo sperimenta in modo ancor più temibile.
Mentre mille storie
s’intrecciavano con la mia avventura, fu la cicatrice, la parte più debole del
mio corpo, a donarmi un vitale insegnamento: quel tatuaggio su carne, muscoli e
nervi, rimasti insensibili dopo l’intervento, mi rese evidente il vero grande pericolo:
che la pelle della mia anima diventasse inerte. Nello scontro insidioso tra il viscido veleno
dell’impotenza e un torrente di riscossa che si battagliavano dentro di me,
rifiutai di restare pavida spettatrice: sulla malattia certo non potevo nulla,
ma su come viverla potevo impegnarmi ad essere io la protagonista.
Cominciai a moltiplicare
gli impegni, creai occasioni per condividere storie e parole che mi avevano
fatto scoprire nuovi orizzonti. Sperimentai, giorno dopo giorno, che il vangelo
dell’Amore è una scelta di vita, non un astratto dogma da credere. E così la
responsabilità di vivere creativamente la malattia fu la mia efficace e feconda
“terapia del dolore”, che mi fece traghettare verso l'altra riva.
Docente di
letteratura francese, negli anni mi ero resa conto dell’urgenza di coinvolgere
sempre più attivamente i miei studenti e avevo proposto loro un’esperienza di
drammatizzazione del Teatro dell’Assurdo. Poi era giunta la diagnosi e la
malattia incombeva burrascosa sulla mia classe. Dopo solo una settimana dall’intervento
avevo ripreso “normalmente” le lezioni, ma lo spettacolo da organizzare era un’attività
ben più impegnativa, soprattutto a causa della mia inesperienza. Coraggio,
orgoglio, cocciutaggine? I miei studenti, anche se con discrezione, mi
scrutavano e io non potevo deluderli. Il mio sentirmi responsabile della loro “speranza”
m'impedì di far registrare una sconfitta. Non poteva trionfare la malattia. Trionfò
la fantasiosa follia dell'amore.
“Ragazzi,
ve la sentite di portare in scena Ionesco? Io non sto molto bene, ma se mi
aiutate ce la faremo”. Avevo attivato un dinamismo, altre volte
sperimentato, utilissimo per vivere la fedeltà: impegnarmi con qualcuno per non
poter più ritornare indietro.
Fu così che nacque la Compagnia Universitaria e il primo dei miei
libri scritti “a più mani”: Un fiore per Ionesco, un libro
“partecipato”. Era il 1995. La nascita di un libro è un parto unico, ma la nascita di
un libro partecipato è ancora più speciale. Quel libro fra le mie mani non è mai
invecchiato e profuma di parole dove sono state inserite delle ali.
Nacque
quel libro. Ogni pagina, un volto e molte storie.
Nacque quel
libro e dentro c’era anche il mio corpo, un po’ diverso, a partire dalla testa:
avevo infatti perduto tutti i miei bei capelli biondi; cute lucente e
immacolata. Neanche un pelo. Ma avevo trovato una parrucca identica alla mia
abituale capigliatura: tranne i miei familiari, nessuno sapeva dell’inganno. La
finzione mi fu utile per continuare
ad essere vera, anche se… calva.
Esperienze
intense si moltiplicarono giorno dopo giorno, ma non tutte sorridenti. Una, in
particolare, trafisse disarmonicamente quel cielo che mi ero impegnata a colorare.
La
forza trainante della Compagnia era Rossana,
una “ farfalla dai lunghi capelli rossi”,
la chiamavo. Sapeva danzare, recitare, cantare. Bella dentro e fuori, mentre si
esibiva trasformava tutto in poesia.
Io, certa delle sue capacità, mi lanciavo
in avventure impossibili, coinvolgendo altri studenti. Anni di complicità gioiosa
ci legarono nel profondo. Realizzò il suo sogno di vita: si sposò e nacque
Alessio, ma subito dopo il parto cominciò a star male. La diagnosi fu crudele:
cancro allo stomaco.
Mi
trovavo scaraventata in un altro baratro. Mille interrogativi mi bombardavano
mente e cuore. Ma perché lei, così bella e giovane e non io? E il piccolo Alessio,
rimasto senza una mamma, con cui non aveva avuto il tempo di giocare? Compresi
con chiarezza incontestabile che porsi domande a cui non si può dare una
risposta è tragicamente nocivo. Raccolsi foto e filmati delle nostre “esperienze
insieme” e realizzai un video: Rossana, in sottofondo cantava La vie en rose, la sua canzone preferita.
Tutti noi della Compagnia la custodiamo
così, viva, nella memoria del nostro cuore.
E poi...
Sono trascorsi 22 dal mio intervento al seno, dopo il quale ho frequentato altre tre
volte la sala operatoria, ma sono ancora qui a scrivere, consapevole di vivere
il periodo più fecondo della mia esistenza.
Solo quando niente ti dice più niente è proprio allora che qualcosa può accadere. È quello il tempo di attraversare le illusioni, di strappare le pelli morte, di lasciarsi penetrare dal dolore per poterlo accettare. Ed è proprio in questa breccia che è possibile sperimentare il mistero della libertà umana. Nella totale impotenza, si può scegliere di costruirsi una corazza-maschera o preferire di farsi, come l’erba, grembo disponibile ad accogliere il Sole, per donare ad altri la luce della vita… nonostante tutto.
C’è qualcosa nella nostra storia
personale, un qualcosa o Qualcuno a cui puoi dare nomi diversi: amore, arte,
religione, Dio, un qualcosa/Qualcuno che cambia il senso di tutto, che fa sì
che tutto abbia un senso. Sta a noi cercarlo e accoglierlo e ogni occasione può
essere propizia.
Forse, occorre solo lasciarsi attraversare dalla Bellezza,
inchinarsi dinanzi all’Eterno, sentire la propria personale fragilità e
sorridere, cantando la gloria dei propri limiti.
agosto 2016
*testo scritto dopo 22 anni dall'intervento; la foto è uno scatto post chemio.