22 ottobre 2018

LA POESIA SERVE DISPERATAMENTE


S'impone la ferocia dell'ignoranza
ma anche la presunzione del sapere.
Schiacciati
aggrovigliati nei racconti
confusi nelle spiegazioni
Intasati dalle informazioni.

Necessità di svuotare il troppo pieno
di risentire la nostalgia del vuoto
la fame dell'oltre
la sete dell'altro.

Desiderare l'asimmetrica armonia dell'alterità.
Non più solo fatti, dati, documenti
ma quel soffio che squaderna
quello straziante squarcio sul già noto.

Una visione
una briciola di futuro sull'immensa memoria delle origini.

Non acrobazie di pensieri
né giochi di parole.
Dare spazio all'indeterminato
all'intreccio di connessioni
all'inatteso.

Sì, per restare umani
"serve disperatamente
la poesia".


11 ottobre 2018

QUEL QUALCOSA CHE CAMBIA IL SENSO DI TUTTO


Ogni  40 giorni ero costretta a quel soffocante rito dell’attesa. A quando la “condanna a morte”?  Dopo quattro anni dal suo intervento al seno, a mia madre era stata diagnosticata una metastasi ai polmoni. Aveva 57 anni. Ero io, la forte della famiglia, a recarmi a ritirare gli esami di controllo e in quegli attimi-minuti-ore le lancette dell’orologio, pur girando regolarmente, per me si arrestavano. Quegli spazi di tempo fuori del tempo si assommarono e mi scavarono dentro spelonche di paure. Una nuvola di interrogativi sovrastava il mio pozzo d’incolmabile solitudine, abitato da ombre bianche di camici frettolosi e da odori nauseabondi di veleni somministrati con disinvoltura sotto etichette di medicinali salvifici. 
Mia madre spirò tra le mie braccia vacillanti, corpo straziato da cinque anni di angoscia e dagli ultimi otto mesi di sofferenze, durante i quali aveva perso anche la lucidità mentale, probabilmente a causa di una chemio devastante. 
Fu per me come un tatuaggio dell’anima, ma non sempre l’esperienza della morte ci risveglia dal nostro torpore spirituale. Siamo davvero sordi e miopi.
Dopo dieci anni, eccomi dal medico di base con mio figlio Francesco, per un certificato di esenzione dall'ora di ginnastica. Dato il rapporto familiare, cominciai a lamentarmi con tono  scherzoso:  Dottore, ma come devo fare? mi sento sempre stanca e poi la testa… un frullatore!” In tanti anni, non era mai successo che, visitandomi, mi palpasse sotto le ascelle, ma quel pomeriggio lo fece e nessuno saprà mai per quale ragione. 
Già, di quel che accade quando deve accadere non conosceremo mai il perché. 
Vidi il suo viso scolorire e, molto seriamente, lui che era solitamente brioso, sentenziò: “Lei domani va a farsi la mammografia”. Questa volta non avevo bisogno di attendere l’esito dell’esame: la diagnosi era stampata sul suo volto. Avevo 47 anni. Erano arrivati per me “i giorni del rischio”.
Rischiare di morire, certo, ma non era quello che m’impauriva; prima o dopo accade a tutti, non solo agli ammalati di cancro. Rischiare di veder deturpata la mia femminilità, ma neppure questo era il mio problema: i capelli sarebbero ricresciuti; quanto al seno era per me un non-problema. La difficoltà da affrontare era un'altra. Avevo paura, tanta, ma la mia era piuttosto “paura di perdermi”. Trascrissi sul mio diario il pressante interrogativo di quei giorni: “Come farà Maria Antonietta a restare Maria Antonietta senza essere più Maria Antonietta?”
 Non sempre l’esperienza aiuta nella vita. Il percorso vissuto con mia madre rendeva tutto ancora più faticoso. Avevo già attraversato quei baratri del nulla, anche se in altro ruolo; ora toccava a me quell’amaro gusto di sentirsi “condannata”: intervento, chemio, radio. E poi? Poi controlli e protocolli più o meno fotocopiati, malesseri di ogni tipo e, a causa delle difese immunitarie fiaccate, patologie differenti (linfangite, tiroidite, meibomite, ecc.) resero variegate le mie stagioni.
“Ma quanto tempo mi resta?” 
Per quanto colti e intelligenti – se mai davvero lo fossimo – spesso manca la consapevolezza, responsabile e gioiosa, dell’attimo fuggente. Nello stressante quotidiano andirivieni, raramente si percepisce che ogni istante è una molecola d’eternità in cui tuffarsi per dire “Sì alla vita”, mentre si vive. Ma si vive? Chi “vive”? Troppo spesso, fasciati dai luoghi comuni, si rimane seduti sul proprio sepolcro, imprigionati nel filo spinato del proprio “io”. E non solo i luoghi comuni e la superficialità. La sofferenza fisica certamente induce a raggomitolarsi in sé come un truciolo di legno sul suo vuoto e una donna ammalata di cancro al seno questo rischio lo sperimenta in modo ancor più temibile.
Mentre mille storie s’intrecciavano con la mia avventura, fu la cicatrice, la parte più debole del mio corpo, a donarmi un vitale insegnamento: quel tatuaggio su carne, muscoli e nervi, rimasti insensibili dopo l’intervento, mi rese evidente il vero grande pericolo: che la pelle della mia anima diventasse inerte. Nello scontro insidioso tra il viscido veleno dell’impotenza e un torrente di riscossa che si battagliavano dentro di me, rifiutai di restare pavida spettatrice: sulla malattia certo non potevo nulla, ma su come viverla potevo impegnarmi ad essere io la protagonista.
Cominciai a moltiplicare gli impegni, creai occasioni per condividere storie e parole che mi avevano fatto scoprire nuovi orizzonti. Sperimentai, giorno dopo giorno, che il vangelo dell’Amore è una scelta di vita, non un astratto dogma da credere. E così la responsabilità di vivere creativamente la malattia fu la mia efficace e feconda “terapia del dolore”, che mi fece traghettare verso l'altra riva.
Docente di letteratura francese, negli anni mi ero resa conto dell’urgenza di coinvolgere sempre più attivamente i miei studenti e avevo proposto loro un’esperienza di drammatizzazione del Teatro dell’Assurdo. Poi era giunta la diagnosi e la malattia incombeva burrascosa sulla mia classe. Dopo solo una settimana dall’intervento avevo ripreso “normalmente” le lezioni, ma lo spettacolo da organizzare era un’attività ben più impegnativa, soprattutto a causa della mia inesperienza. Coraggio, orgoglio, cocciutaggine? I miei studenti, anche se con discrezione, mi scrutavano e io non potevo deluderli. Il mio sentirmi responsabile della loro “speranza” m'impedì di far registrare una sconfitta. Non poteva trionfare la malattia. Trionfò la fantasiosa follia dell'amore. 
Ragazzi, ve la sentite di portare in scena Ionesco? Io non sto molto bene, ma se mi aiutate ce la faremo”. Avevo attivato un dinamismo, altre volte sperimentato, utilissimo per vivere la fedeltà: impegnarmi con qualcuno per non poter più ritornare indietro.
Fu così che nacque la Compagnia Universitaria e il primo dei miei libri scritti “a più mani”: Un fiore per Ionesco, un libro “partecipato”. Era il 1995. La nascita di un libro è un parto unico, ma la nascita di un libro partecipato è ancora più speciale. Quel libro fra le mie mani non è mai invecchiato e profuma di parole dove sono state inserite delle ali.
Nacque quel libro. Ogni pagina, un volto e molte storie.
Nacque quel libro e dentro c’era anche il mio corpo, un po’ diverso, a partire dalla testa: avevo infatti perduto tutti i miei bei capelli biondi; cute lucente e immacolata. Neanche un pelo. Ma avevo trovato una parrucca identica alla mia abituale capigliatura: tranne i miei familiari, nessuno sapeva dell’inganno. La finzione mi fu utile per continuare ad essere vera, anche se… calva.
Esperienze intense si moltiplicarono giorno dopo giorno, ma non tutte sorridenti. Una, in particolare, trafisse disarmonicamente quel cielo che mi ero impegnata a colorare.
La forza trainante della Compagnia era Rossana, una “ farfalla dai lunghi capelli rossi”, la chiamavo. Sapeva danzare, recitare, cantare. Bella dentro e fuori, mentre si esibiva trasformava tutto in poesia. 
Io, certa delle sue capacità, mi lanciavo in avventure impossibili, coinvolgendo altri studenti. Anni di complicità gioiosa ci legarono nel profondo. Realizzò il suo sogno di vita: si sposò e nacque Alessio, ma subito dopo il parto cominciò a star male. La diagnosi fu crudele: cancro allo stomaco.
Mi trovavo scaraventata in un altro baratro. Mille interrogativi mi bombardavano mente e cuore. Ma perché lei, così bella e giovane e non io? E il piccolo Alessio, rimasto senza una mamma, con cui non aveva avuto il tempo di giocare? Compresi con chiarezza incontestabile che porsi domande a cui non si può dare una risposta è tragicamente nocivo. Raccolsi foto e filmati delle nostre “esperienze insieme” e realizzai un video: Rossana, in sottofondo cantava La vie en rose, la sua canzone preferita. Tutti noi della Compagnia la custodiamo così, viva, nella memoria del nostro cuore.
E poi...


Sono trascorsi 22 dal mio intervento al seno, dopo il quale ho frequentato altre tre volte la sala operatoria, ma sono ancora qui a scrivere, consapevole di vivere il periodo più fecondo della mia esistenza. 

Solo quando niente ti dice più niente è proprio allora che qualcosa può accadere. È quello il tempo di attraversare le illusioni, di strappare le pelli morte, di lasciarsi penetrare dal dolore per poterlo accettare. Ed è proprio in questa breccia che è possibile sperimentare il mistero della libertà umana. Nella totale impotenza, si può scegliere di costruirsi una corazza-maschera o preferire di farsi, come l’erba, grembo disponibile ad accogliere il Sole, per donare ad altri la luce della vita… nonostante tutto.

C’è qualcosa nella nostra storia personale, un qualcosa o Qualcuno a cui puoi dare nomi diversi: amore, arte, religione, Dio, un qualcosa/Qualcuno che cambia il senso di tutto, che fa sì che tutto abbia un senso. Sta a noi cercarlo e accoglierlo e ogni occasione può essere propizia. 
Forse, occorre solo lasciarsi attraversare dalla Bellezza, inchinarsi dinanzi all’Eterno, sentire la propria personale fragilità e sorridere, cantando la gloria dei propri limiti.

agosto 2016
*testo scritto dopo 22 anni dall'intervento; la foto è uno scatto post chemio.