18 agosto 2020

L’albero della speranza e una rosa

Ogni realtà ha una sua storia. Se la conosciamo, quell'oggetto, quell'evento, quella persona acquisisce spessore, risplende di una bellezza che altri non possono scorgere. Così è di questo piccolo albero di nessun pregio estetico, ma la cui storia è talmente intensa da renderlo qualcosa di speciale. Di questa storia ho già scritto nel mio blog, di cui allego il link*, ma oggi la storia si è arricchita di una seconda parte, che voglio condividere oggi, in questo tempo senza tempo… pare sia trascorsa già una settimana dalla nuova “nascita” di Michele.

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Da quando avevo sei anni, trascorro i mesi estivi in una zona ad una ventina di minuti minuti da Palermo. Il luogo, a circa 600 metri di altezza, è chiamato San Martino delle Scale. Sessant’anni fa sembrava un presepio permanente. Dalla conca collinare in cui giace la borgata, andando su per quasi quattro chilometri, si giunge ad un’altezza di circa 800 metri, dove, negli anni ‘50 è stato creato il “Villaggio Montano”. Lì trascorro buona parte dell’estate da oltre sessant’anni.  La bellezza del luogo è tale che, chi come me è legato a questo spazio, continua a scegliere di trascorrervi il periodo estivo nonostante l’assenza totale di servizi. E oltre i disservizi c’è lo scempio annuale a cui siamo costretti ad assistere una o due volte ogni estate. Luglio o agosto, un po’ qui e un po’ lì, qualche brandello di pineta, ancora miracolosamente sopravvissuta, viene ridotta in cenere in pochi minuti. Forme, suoni e colori svaniscono. Si ripete un copione drammatico.

E con singolare violenza, avvenne anche il 17 agosto 1994. Verso le 22, la notte divenne “infuocata“. Il cielo in pochi istanti si trasformò in un’immensa fornace. Il fuoco era stato appiccato in più punti e, a causa delle raffiche di vento, era impossibile controllare le fiamme. Terrore e rabbia soffiavano più violenti dello scirocco. Qualcuno pregava.

Questo lo scenario su cui prende forma “la storia dell’albero”. 

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L’anno seguente all’incendio descritto, un pomeriggio, mio figlio Francesco mi dice: «Mamma, guarda sopra la montagna». Di fronte casa mia si stende armoniosamente una stupenda collina, nella mia infanzia favoloso mare verde ondeggiato dal vento, di cui oggi non rimane che il riverbero nella mia sbrindellata memoria. Nessuna traccia di quel che fu un bosco, all’infuori dei sentieri che prima s’inoltravano tra funghi e ciclamini, adesso solo pietraia luccicante al sole. Anche quella montagna è stata denudata e rudemente violentata. Neppure un albero sulla collina che, in passato, era stata una delle più lussureggianti pinete del Villaggio. Sassi e pietre nel mio sguardo.

 ‒ Mamma, guarda sopra la montagna, sulla cima. Non vedi niente?
In effetti non scorgevo che un’esile sagoma simile a un paletto da recinzione, che non avevo mai notato.
          ‒ Perché, Francesco, cosa c’è?

Secondo il suo stile essenziale, mio figlio sintetizza: «Sono salito con Roberto e Gabriele, la carriola, la terra, la zappa e un cipressino nato in zona. L’abbiamo trapiantato là».

 Sulla cresta di quella collina, schiaffeggiato dal vento, l’albero-paletto appariva inerme e poco fortunato. Sarebbe potuto crescere altrove, sprofondando le radici nella terra, rinforzando ed allungando il suo tronco, regalando al sole rami e gemme. Ma non sarebbe stato che un albero fra gli alberi.
       Lì, sulla cima, quel piccolo cipresso è diventato per molti un segno di rinascita. Una voglia e un’urgenza visibile di affermare che la vita è più forte di ogni violenza e che vale la pena tentare, resistere, fare delle “follie”, anche quando tutti ti dicono che “tanto non serve a niente”.
       Gli incendi continuano infatti a cadenzare le nostre estati, ma quell’albero è lì. Ha segnato un percorso. Amici che d’estate vanno e vengono da casa nostra sono saliti sulla montagna per portare il loro contributo d’acqua. Ognuno con la sua bottiglia o bidoncino colmo fino all’orlo e la gioia di collaborare per far crescere la pianta: “Voglio salire anch’io”. Giovani e anziani in montagna, lungo un sentiero abbastanza semplice all’inizio, ma che poi si conclude ai piedi di una pietraia. All’inizio della scalata finale non è più visibile e ci si continua ad arrampicare solo nella certezza che l’alberello è lì.

Certo non cresce rigoglioso l’albero e non lo sarà mai data la postazione, ma il suo compito non è di fare ombra ma di elevare, nel centro del cielo, una parola di speranza, sfida alla dilaniante potenza del male, sussurro lieve di una energia vitale mai del tutto eliminata, nota di tenerezza in un contesto violento. Lì, sulla cima. Traccia da sventolare dall’alto. Allora come oggi.

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Nei giorni scorsi, il nostro albero ha ricevuto nuova linfa. Un'altra storia si è intrecciata con la precedente e una rosa carezza adesso le radici del piccolo cipresso.
     Alle 7 del mattino di mercoledì 12, giorno del funerale di Michele, vedo Francesco, Gabriele e Laura con le scarpe da tennis. Li interrogo con lo sguardo.
      ‒ Mamma, saliamo all'albero...

Mi commuovo nel profondo. Una sublime preghiera sta per essere celebrata sulla vetta della nostra montagna.
     Il giorno prima, dal balcone della sua stanza aperto verso il cielo, Michele, con gli occhi dell'anima, poteva guardare la vetta di fronte a lui e scorgere l'alberello.
      ‒ Franci, porta su una rosa...

Inizia la salita. Con Francesco, Gabriele e Laura, col cuore saliamo tutti: le nostre famiglie Bertolino, La Barbera, Bettonica, Cusimano, i tanti amici... per piantare in alto, ancora una volta, la parola della speranza. 

Ora l'albero non è più solo. Insieme con la rosa, carezza il cielo. 

 

* Il link del testo completo, elaborato nel 1998, da cui ho tratto alcuni stralci.
https://mariantoniettalb.blogspot.com/2018/08/lalbero-della-speranza.html