Briciole
ricomposte[1]
Il 28 marzo 1994, Eugène Ionesco ha
concluso la sua esistenza terrena, mentre, battendo ogni record, veniva messa
in scena la 11.943a replica dello Spectacle Ionesco,
ossia la rappresentazione de La Cantatrice chauve e de La leçon,
spettacolo che viene riproposto ogni sera ininterrottamente dal 16 febbraio
1957, al teatro parigino della Huchette.
Gli articoli giornalistici pubblicati per
fare memoria del “re” dell’assurdo possono considerarsi, per la maggior parte,
come una irrecusabile conferma di quel che Ionesco affermava a proposito della
critica letteraria: «dialogo fra sordi». Cliché, definizioni trite,
affermazioni troppo scontate. E parole, parole, parole...
Per chi ha ascoltato, nell’opera di Eugène
Ionesco, parole di vita, è forte l’urgenza di rivisitare tutta la sua
produzione, per ritrovare quel centro in cui si è originato il suo universo
drammatico, messo in scena in ogni parte del mondo, ma troppo spesso letto,
visto, applaudito o criticato con biasimevole superficialità.
Ritrovare
tale centro non è certo agevole e sono diverse le motivazioni:
a) le tematiche proposte
nella sua produzione sono numerose;
b) Ionesco rivoluziona la
situazione del teatro francese;
c)
in lui coesistono
un abile comico, esperto nei giochi del linguaggio e nella derisione; un poeta
e un metafisico, scrittore del sogno e dell’angoscia.
Due
stati di coscienza fondamentali sono all’origine di tutte le mie opere:
predomina talvolta l’uno, talvolta l’altro, talvolta essi si mescolano. Queste
due prese di coscienza originarie sono quelle dell’evanescenza e della
pesantezza; del vuoto e della troppa presenza; dell’irreale trasparenza del
mondo e della sua opacità; della luce e delle tenebre spesse. Ciascuno di noi
ha potuto sentire, in certi momenti, che il mondo ha una sostanza di sogno, che
i muri non hanno più spessore, che ci sembra di vedere attraverso tutto, in un
universo senza spazio, fatto unicamente di chiarezze e di colori; tutta
l’esistenza, tutta la storia del mondo, in quel momento, diviene inutile,
insensata, impossibile. Quando non si riesce a superare questa prima tappa di
disorientamento (si ha infatti l’impressione di risvegliarsi in un mondo
sconosciuto) la sensazione dell’evanescenza vi procura un’angoscia, una specie
di vertigine: la leggerezza si trasforma in pesantezza; la trasparenza in
spessore; il mondo pesa, l’universo mi schiaccia. Un muro invalicabile si
frappone tra me e il mondo, tra me e me stesso, la materia riempie tutto,
occupa ogni spazio, annulla ogni libertà sotto il suo peso, l’orizzonte si
rimpicciolisce, il mondo diviene una prigione soffocante.[2]
Ionesco non fu soltanto un
uomo di teatro. Come afferma Yves Moraud, egli fu piuttosto «uomo-teatro» o meglio «teatro-uomo». Basti pensare ai titoli delle sue
opere non teatrali: Notes et contre-notes,
Journal en miettes, Présent passé Passé
présent, Antidotes per intravedere una personalità dalle molte
sfaccettature che, dopo aver affermato qualcosa, avverte il bisogno o la tentazione di
pensare e affermare il contrario.
Il drammaturgo si presenta
come una “scena” sempre in scena nella
quale, in ogni momento, si contrastano, in un dialogo a più voci, i suoi “io” più contraddittori: infanzia e
luce da una parte e, dall’altra, l’esperienza dell’uomo ossessionato dall’idea
della morte; l’urgenza della leggerezza e l’ossessione dell’opacità; il volo e
la caduta; l’amore e lo sterile isolamento.
Ionesco: un personaggio
costantemente alla ricerca di sé, della sua parte.
La sua essenza più profonda
è teatrale: non riesce a comunicare se non attraverso questo gioco teatrale, in
cui ricerca la sua identità smarrita, a causa delle sofferenze della sua vita e
delle contraddizioni insite nella sua personalità.
In
letteratura non si tratta di esporre delle verità teoriche, delle idee, come
nei discorsi, ma di rappresentarle nel gesto e nell’immagine, come delle
evidenze viventi, delle sensazioni.
Io
non racconto le cose, le faccio apparire; non le discuto, infatti la
discussione attenua i fatti, li spiega in modo falso, ci aiuta a dimenticarli;
questi fatti io li presento materialmente, nella loro nudità.[3]
Conosciuto per la sua opera teatrale,
elaborata in modo intenso, a partire dal 1950, per poco più di quindici anni,
Ionesco è anche autore di parecchie raccolte di novelle, molte delle quali
contengono l’intuizione originaria di alcune fra le sue pièces più famose.
Ha inoltre pubblicato una raccolta di
poesie, un romanzo, numerosi articoli di critica letteraria, libretti per opere
liriche, sceneggiature cinematografiche, saggi e diari che, oltre a farci
conoscere il suo mondo interiore, sono una prova inconfutabile dell’intensa
attività di scrittura sperimentata come una confessione-dono.
Non va infine dimenticata la predilezione
di Ionesco per il linguaggio dei colori e delle forme. Alla pittura, che lo ha
sempre attratto, ha infatti dedicato gli ultimi anni della sua vita,
realizzando un diverso tipo di scrittura, in cui ha vissuto il linguaggio delle
linee, e ancor più quello dei colori, come l’ultimo possibile spazio di
comunicazione.
I colori sono ancora viventi, mentre per
me le parole hanno perduto senso, valore, qualsiasi espressione. I colori sono
di questo mondo; essi cantano, sono di questo mondo e mi sembra che mi
colleghino all’Altro Mondo. Io ritrovo in essi ciò che la parola ha perduto. Il
colore è parola, linguaggio, comunicazione, vita, tutto ciò che può
riallacciarmi a Lui, ciò che mi permette di vivere.[4]
Quale che sia la forma di scrittura
praticata, il linguaggio ioneschiano rivela sempre il travagliato percorso esistenziale
dello scrittore, e rende il lettore partecipe di quell’incessante andirivieni
fra spazi tenebrosi ed interstizi di luce, tra «nero e bianco»[5]:
ossessioni e paure si intessono incessantemente con certezze e desideri, e la
coscienza del presente, dell’istante risvegliato, del briciolo d’esistenza
vissuto nell’oggi, quasi sempre finisce col dissolversi nella consapevolezza
dell’atrocità universale. E come soffio vitale, lo stupore: «Che cos’è tutto
questo?»
Tale profondo senso di «meraviglia»
talvolta dà consistenza all’intima lacerazione e si apre dunque ad
un’esperienza di caduta, di tragica pesantezza, di incontrollabile paura di
ritrovarsi disperso nel caos; altre volte, dallo stupore si genera l’esperienza
della leggerezza, del trionfo della luce, della gioia di esistere.
Come il tempo, nell’opera ioneschiana non
è più punto di riferimento, così anche lo spazio è «caricato d’angoscia,
poiché‚ è labirintico».[6]
Tutti i suoi testi rivelano un uomo che ha
smarrito le sue coordinate e che si sente disperso dinanzi alla tragedia del
mondo, ma che continua a cercare, ad attendere la «Manifestazione»; un
uomo che si sforza di superare un’angoscia profonda e permanente, alimentata
dalla sua riflessione, talvolta ossessiva, sulla vita e sulla morte.
La scrittura viene così vissuta come una
possibilità di trovare, o quantomeno di invocare, risposte a drammatici
interrogativi, per trarsi fuori dall’angoscia, per vedere più chiaro fra le
tenebre, le ossessioni, i dubbi, le paure.
Spesso l’infanzia e il sogno riempiono il
presente, mentre passato e futuro si confondono: è una storia che si va
delineando fuori della Storia, ma dentro un’interiorità.
Scrittura autobiografica e scrittura
teatrale nascono pertanto da un unico dinamismo interiore, di cui il «sogno»
è una delle dimensioni più caratteristiche per la sua creatività, in quanto
rende il reale più “reale”.
E se della scrittura autobiografica quasi
nulla è stato detto, forse troppo si è scritto a proposito della produzione
teatrale. Teatro dell’assurdo, teatro dell’incomunicabilità, teatro dell’esilio
è stato definito quello di Ionesco.
L’etichetta «teatro dell’assurdo»,
con cui è stata catalogata la sua produzione drammatica, ha trovato origine nel
titolo di una monografia del critico inglese Martin Esslin[7],
dedicata al teatro degli anni Cinquanta, ma tale definizione non è mai stata
condivisa da Ionesco: «Io assurdo? Che assurdità!»
Concordando con tale rifiuto, ritengo
certamente più fedele al percorso del drammaturgo, il titolo del saggio di
Saint Tobi: «Eugène Ionesco ou A la recherche du paradis perdu».[8]
Una delle ragioni principali per le quali
scrivo è per ritrovare il meraviglioso della mia infanzia al di là del
quotidiano, la gioia al di là del dramma, la freschezza al di là della
grossolanità.
Tutti i miei libri, tutte le mie opere
teatrali sono una chiamata, l’espressione di una nostalgia, io cerco un tesoro
inabissato nell’oceano, perduto nella tragedia della storia. È per ritrovare la
bellezza originaria, intatta in mezzo al fango, che io non solo faccio
letteratura, ma me ne sono nutrito. È la luce che io cerco e mi sembra di
ritrovarla di tanto in tanto. Sempre
alla ricerca di questa luce certa oltre le tenebre.[9]
In effetti io sono alla ricerca di un
mondo ritornato vergine, della luce paradisiaca dell’infanzia, della gloria del
primo giorno, gloria non offuscata, universo intatto che deve apparirmi come se
stesse per nascere. È come se io volessi assistere all’avvenimento della
creazione del mondo prima della decadenza e tale avvenimento lo cerco
attraverso me stesso, come se volessi risalire il corso della Storia, o
attraverso i miei personaggi che sono altri me stesso, o che sono come tutti
coloro che mi somigliano alla ricerca consapevole o no della luce assoluta.[10]
In tutta l’opera di Ionesco infatti è
sempre presente, anche se in modo più o meno immediatamente percepibile, «la
ricerca di una realtà essenziale dimenticata, taciuta», fuori della quale
Ionesco sa di non poter vivere.
L’attesa della luce, la «sete e la fame»[11]
dell’Assoluto sono delle costanti di tutta l’opera ioneschiana e si possono
considerare il dinamismo che anima la sua scrittura:
Io aspetto che la bellezza venga un giorno
ad illuminarmi, a rendere trasparenti i sordidi muri della mia prigione
quotidiana.[12]
Tutta l’opera è attraversata da un
ossessivo interrogarsi sul mondo, sull’inammissibilità dell’esistenza,
attraverso procedimenti logici e analisi introspettive talvolta soffocanti.
Una parola-chiave del suo universo è
certamente “interrogazione”, da Yves Moraud indicata come il segno
caratteristico del linguaggio dell’esiliato.
Interrogarsi o interrogare il mondo è
inizialmente un porsi in una situazione di dualità o di esteriorità in rapporto
a sé o in rapporto al mondo, con la volontà di comprendere e stabilire il
dialogo.[13]
Interrogarsi, e interrogarsi sul perché ci
si interroga, porsi delle domande e insieme affermare che non ci sono
risposte-soluzioni alla tragicità della vita: è questo l’intrigo di quell’opera
scritta da Ionesco che è la sua vita.
E non va certo dimenticato che Ionesco
resterà sempre l’uomo dalle due patrie: saranno sempre due tradizioni culturali
ad interagire nella sua esistenza, due lingue.
L’angoscia di cui ha sofferto, la paura
della morte, l’insostenibile invadenza della materia che «svuota l’universo
di presenza»[14]
saturando lo spirito e svuotandolo di ogni dinamismo vitale, l’impotenza
dell’uomo ad autosalvarsi sono alcune delle tematiche che riecheggiano nella
produzione narrativa, nei saggi, nei diari di Ionesco e che gridano l’attesa
della luce, la gioia della leggerezza, della presenza.
Tale esperienza di pienezza emerge
talvolta in squarci appena percettibili, ma è per lo più celata da un tragico
quotidiano, follemente ritualistico e svuotato di qualsiasi autenticità.
E così il grottesco e il riso feroce
evidenziano la vuotaggine di un’esistenza appiattita a banalissimo stereotipo e
rivelano incisivamente il carattere distruttivo, mortifero dell’automatismo
della ripetizione.
In tale ferialità disumanizzata, l’assenza
di tutti i valori e aspirazioni profondamente umani è da leggersi come una
forma di urlo metafisico, che afferma l’urgenza irrefrenabile di una vita
più umana, in ogni interstizio di
creazione.
E questi stessi dinamismi danno vita a
quei personaggi e situazioni messi in scena secondo quelle tecniche teatrali
che gli consentono di andare al di là del linguaggio discorsivo e di comunicare
allo spettatore, in modo più diretto e coinvolgente, sensazioni, dubbi,
angosce, desideri. E le parole vengono vomitate sulla scena, fino alla
violenza.
Sono perduto nelle migliaia di parole e di
azioni mancate che sono la “mia vita”, che disarticolano, che distruggono la
mia anima. Questa vita è tra me e me stesso, la porto tra me e me stesso, non
la riconosco come mia e tuttavia è ad essa che domando di essere rivelato. Ma
come essere rivelato da ciò che vi nasconde? Come fare perché tutte le maschere
divengano trasparenti, come risalire il fiume delle combinazioni, dell’errore,
del disorientamento fino alla sorgente pura? Come dare un’espressione a ciò che
non si può esprimere?[15]
Si è parlato, a proposito di Ionesco,
oltre che di teatro dell’assurdo anche di teatro d’avanguardia, di teatro
simbolista, di teatro lirico, di teatro della «derisione».
Il drammaturgo amava piuttosto parlare di
«antiteatro» o di teatro totale, ossia di un teatro non politico né
sociale o psicologico, ma di un teatro che affrontasse la problematica
fondamentale dell’uomo, quella della «condizione umana».
Quel che io volevo fare, no, sarebbe
troppo solenne dirlo: fare della metafisica. La storia e la politica cercano
vanamente di risolvere o mascherare il problema fondamentale della nostra
condizione, infatti non possono rispondere a queste domande: “Che cosa faccio
qui? Perché sono qui? Cos’è questo mondo che sta intorno a me?” Queste sono
delle domande elementari che la storia ci fa dimenticare, ma che ognuno
dovrebbe porsi. Io credo che per me la cosa più importante non sia la
condizione economica o sociale, ma la condizione esistenziale: non si deve perdere
la coscienza di sé.[16]
Secondo Ionesco, la condizione
esistenziale è fortemente rivelata dalle forme del linguaggio e dai modi della
comunicazione umana. La disarticolazione del linguaggio in lui pertanto non è
mai puro gioco di rottura, ma nasce dal convincimento che una parola consumata,
logorata, sia il segno che il pensiero è morto: è la sclerosi spirituale che
riduce la parola a cliché, slogan, luogo comune. Secondo Ionesco pertanto il
linguaggio logoro, disarticolato, parla di un uomo che si è ridotto ad «essere
sociale», dimenticando o smarrendo la sua singolarità, la sua più profonda
interiorità.
Cogliere la tragicità di un linguaggio che
non è più veicolo di comunicazione
autentica, sprofondare nell’autarchico reticolato di uomini-fantocci che chiacchierano
in modo inarrestabile perché non hanno nulla da dirsi o da darsi è, per
Ionesco, l’unico percorso che possa ricondurre alla ricomposizione di questo
stesso linguaggio e che sia in grado di invocare un processo di umanizzazione
di una società ormai per lo più costituita da individualità frantumate
nell’intimo e pertanto incapaci di relazionarsi autenticamente.
Una parola da sola può mettervi sulla
strada, una seconda parola può turbarvi, la terza vi getta nel panico. A
partire dalla quarta, è la confusione assoluta. Il logos era anche l’azione. È
divenuto la paralisi.
La parola non rivela più. La parola
chiacchiera. La parola è letteraria. La parola è una fuga. La parola impedisce
al silenzio di parlare. La parola assorda. La parola consuma il pensiero. Lo
svilisce. La garanzia della parola deve essere il silenzio. Ahimè! Che civiltà!
È l’inflazione della parola.[17]
Un universo quello ioneschiano dove,
spesso con violenza, si respira una sorta di insostenibile malessere, si
assiste alla squallida degradazione a cui è giunto l’uomo, al suo incessante
sprofondare nella chiacchiera, nel fango, negli oggetti-materia che prolificano
in modo incontrollabile. Emblematico è il titolo della sua ultima opera
teatrale del 1984: Voyages chez les morts.[18]
Eppure questo mondo di «assenza»,
questo spazio di morte urla l’urgenza di una Presenza, di una luce, esprime
l’incessante ricerca di una vita luminosa. Ed è questa «ondata di luce»,
di novità, questa purezza e verginità dell’essere che Ionesco, con pesante
fatica e lacerante travaglio intimo, si è comunque sforzato di voler
riconquistare durante tutta la sua esistenza. È la costante ricerca del «paradiso
perduto».
Ionesco assurdo, Ionesco nevrotico o
Ionesco contemplativo?
Nessuna risposta credibile che non nasca
da una ascolto attento di questa scrittura, così inquietante e così umana. Un
invito a leggere Ionesco.
Come una sinfonia, come una costruzione,
un’opera di teatro è, molto semplicemente, un monumento, un mondo vivente; è
una combinazione di situazioni, di parole, di personaggi; è una costruzione
dinamica che ha la sua logica, la sua forma, la sua coerenza proprie. È una
costruzione dinamica i cui elementi si equilibrano opponendosi.[19]
Più le opposizioni, le passioni sono
complesse e numerose, più è importante, e poiché l’opera è come un organismo
vivente, come un essere, è in questo che essa è contemporaneamente invenzione e
scoperta, immaginaria e reale, oggettiva e soggettiva, letteratura e verità.[20]
[1]
Il titolo Briciole ricomposte fa riferimento a Journal
en miettes del 1967, uno fra i diari più significativi di Ionesco.
[5] Cfr. Ionesco,
Le blanc et le noir, Paris, Gallimard, 1985. Il testo comprende quindici disegni
commentati dall’autore ed una sua lunga introduzione.
[11] La
faim et la soif è il
titolo di una pièce del 1966.
[13] Yves Moraud, Ionesco:
un théâtre de l’exil et du rituel, in Ionesco, Colloque de Cerisy,
Paris, Belfond, 1980, p. 87.
[18] Nel 1987
scriverà ancora il libretto dell’opera lirica Maximilien Kolbe, il santo
francescano la cui storia lo ha sempre fortemente attratto: «La sola
esistenza da invidiare, la sola esistenza che merita di essere vissuta, che
giustifica la vita così come la morte». (Ionesco, intr. a Ionesco,
Colloque de Cerisy, Paris, Belfond, 1980, p. 23).