Cinquant’anni
fa sembrava un presepio permanente, poche case, un lavatoio, enormi cespugli di
more, qualche albero da frutta e pini. Stupendi, maestosi pini e abeti, di
differenti specie, rendevano il paesaggio davvero riposante e l’aria fortemente
ossigenata. A poche centinaia di metri dal gregge di case, un’abbazia
benedettina medioevale, nei secoli centro di cultura e di vita per la borgata. Sulla
sinistra della piazza una stradina s’inerpicava più in alto. Dalla conca
collinare in cui giaceva il paesino, andando su per quasi quattro chilometri,
si giungeva ad un’altezza di circa 800 metri, dove sarebbe sorto il “Villaggio
Montano”, la parte elevata di San Martino. Boschi di conifere, conigli,
farfalle variopinte e splendidi ciclamini costituivano la scenografia che per
decenni ha rallegrato il mio sguardo, posato oltre che sulla flora e sulla
fauna anche sullo splendido golfo di Palermo, semiarco azzurroblu abbracciato
dalle montagne verdeggianti. Nessun rumore al di fuori del belare delle pecore
e del muggito delle vacche, modulato sul suono dei campanacci. E un
ininterrotto concerto di cicale, ritmato da armoniosi voli chiacchierini.
Bambina,
non sapevo, non capivo il valore degli alberi, dell’albero. Mi sembrava normale
tutto quel verde, maestoso e così a portata di tutti, capace di creare spazi di
rifugio, di sosta, di giochi profumati.
Poi è
giunto il progresso, che in sé sarebbe una cosa bellissima se non fosse
collegato con l’avidità del denaro e l’arroganza. La logica mercantile si è andata
insinuando un po’ dovunque, nelle metropoli come nei luoghi eremitici, nelle
piazze e nei cimiteri. Soldi, produzione e soldi, nient’altro. E così gli
alberi sono diventati uno dei tanti bersagli di una mentalità malata, che non
sa più porre cose e situazione in un ordine umano. L’albero, l’aria pulita, un
bosco, non producono denaro in modo facile e rapido. Altri interessi più
immediati si sono sostituiti alla gioia di una salutare passeggiata con gli
amici. Altro che salvaguardia dell’albero, rimboschimento e riserve naturali.
Molti, troppi “interessi” sono concentrati sull’abbattimento delle piante per…
far spazio alla civiltà! Da tutte le parti del mondo giunge purtroppo notizia
di tali misfatti. Ma al Villaggio Montano il misfatto è ancora più atroce. Gli
alberi non vengono abbattuti per una qualche progettazione, sia pur
discutibile, di megamercati o zone industriali. Gli alberi vengono bruciati per
meschini interessi legati ad un profitto altrettanto meschino e circoscritto:
agevolare il pascolo di una ventina di mucche, possibilità di qualche contratto
in più nel corpo forestale abilitato alla… salvaguardia del bosco!
Ogni estate, chi è rimasto fedele alla sosta
estiva in quella località, è costretto ad assistere, impotente, allo scempio.
Una o due volte, luglio o agosto, un po’ qui e un po’ lì, qualche brandello di
pineta, ancora miracolosamente sopravvissuta, viene ridotta in cenere in pochi
minuti. Forme, suoni e colori svaniscono. Fiori e frutti s’inceneriscono.
Animali e persone sono costretti alla fuga. Tronchi monumentali si schiantano
al suolo come stuzzicadenti. Il fuoco divampa selvaggio, alimentato da un forte
vento che, quando comincia a soffiare al mattino è, purtroppo, segno
premonitore di quanto accadrà nella serata. Già perché sembra ripetersi un
rituale. I fedelissimi del Villaggio pensiamo, magari senza pronunciarla, la
fatidica frase: “Oggi è giornata di incendio”. Si ripete un copione drammatico.
E
con singolare violenza, avvenne anche quell'anno. Verso le 22, la notte diventa
“infuocata“. Il cielo in pochi istanti si trasforma in un’immensa fornace.
Sembra d’essere nei pressi di un cratere: le fiamme s’inseguono a velocità
impressionante. Arbusti, alberi e foglie d’ogni genere crepitano tragicamente
in un caotico concerto di morte. Bisogna abbandonare le case, ora immerse, invece
che nel verde, in una coltre di faville e fumo incandescente. Il fuoco è stato
appiccato in più punti e, a causa delle raffiche di vento, è impossibile
controllare le fiamme. Terrore e rabbia soffiano più violenti dello scirocco.
Qualcuno prega.
Come
in tutte le situazioni fortemente drammatiche, ciascuno si manifesta nella sua
verità più profonda: chi pensa a portar via da casa quel che può, chi fugge,
chi si dà da fare, come meglio riesce, escogitando strumenti e possibilità per
salvare il salvabile: le proprie cose, certo, ma anche quelle della comunità.
Giacché un bosco è una ricchezza per tutti. E lì a colpi di ramazza e di
picconi per far tacere il fuoco, per spegnere i focolai, gettando acqua sulle
radici degli alberi non ancora del tutto abbrustoliti.
Così, in una notte
mortifera, brilla tra la cenere il coraggio di alcuni, si manifesta la generosità
di molti e una viscerale solidarietà esplode nel fuoco, tenerissima scintilla
di speranza. Già, sempre e dovunque c’è un “resto”, una piccola parte capace di
continuare a credere, a sperare, ad amare.
Sul
mio terrazzo, nei giorni precedenti al grande incendio, una pianta di ibiscus
ci regalava stupendi fiori rossi. Le fiamme quella notte avevano fasciato il
terrazzo e la pianta era stata spogliata, tronco incenerito, foglie
accartocciate come i fiori. Ma un bocciolo era rimasto sul ramo,
misteriosamente, rosso fuoco a cantare che «tutto è sempre possibile».
Questo
lo scenario su cui prende forma “la storia dell’albero”.
(Forse
il preludio, nell’economia del racconto, potrà apparire eccessivamente esteso.
Ma cos’è una storia senza storia?)
° ° ° ° °
L’anno
seguente all’incendio descritto, un pomeriggio, mio figlio mi dice: «Mamma,
guarda sopra la montagna». Di fronte casa mia si stende armoniosamente una
stupenda collina, nella mia infanzia favoloso mare verde ondeggiato dal vento,
di cui oggi non rimane che il riverbero nella mia sbrindellata memoria. Nessuna
traccia di quel che fu un bosco, all’infuori dei sentieri che prima
s’inoltravano tra funghi e ciclamini, adesso solo pietraia luccicante al sole.
Anche quella montagna è stata denudata e rudemente violentata. Neppure un
albero sulla collina che, in passato, era stata una delle più lussureggianti pinete
del Villaggio. Sassi e pietre nel mio sguardo.
«Mamma,
guarda sopra la montagna, sulla cima. Non vedi niente?» In effetti non
scorgevo che un’esile sagoma simile a un paletto da recinzione, che però non avevo
mai notato. «Perché, Francesco, cosa c’è?» Secondo il suo stile
essenziale, mio figlio sintetizza: «Sono salito con Roberto e Gabriele, la
carriola, la terra, la zappa e un cipressino
nato in zona. L’abbiamo trapiantato là.»
Sulla
cresta di quella collina, schiaffeggiato dal vento, l’albero-paletto appariva
inerme e poco fortunato. Sarebbe potuto crescere altrove, sprofondando le
radici nella terra, rinforzando ed allungando il suo tronco, regalando al sole
rami e gemme. Ma non sarebbe stato che un albero fra gli alberi.
Lì,
sulla cima, quel piccolo cipresso è diventato per molti un segno di rinascita.
Una voglia e un’urgenza visibile di affermare che la vita è più forte di ogni
violenza e che vale la pena tentare, resistere, fare delle “follie”, anche
quando tutti ti dicono che «tanto non serve a niente».
Gli
incendi continuano infatti a cadenzare le nostre estati, ma quell’albero è lì.
Ha segnato un percorso. Sempre desertificata la collina, ma in cima una traccia
di attenzione, un segno di speranza. Una gemma d’amore.
Amici
che d’estate vanno e vengono da casa nostra sono saliti fino all’albero per
portare il loro contributo d’acqua. I primi mesi, in particolare, le radici
dovevano essere alimentate. In cima alla montagna non terra fertile, ma sassi
impenetrabili e spine d’ogni tipo. Si decideva di salire. Ognuno con la sua
bottiglia o bidoncino colmo fino all’orlo e la gioia di collaborare per far
crescere la pianta. «Voglio salire anch’io». E il gruppo s’infoltiva.
Lì,
sulla cima. Traccia da sventolare dall’alto. Giovani e anziani in montagna,
lungo un sentiero abbastanza semplice all’inizio, ma che poi si concludeva ai
piedi di una pietraia. Nessuna pista segnata. Duecento e più metri di salita,
tra massi e spine, come capre, da percorrere senza appoggio e senza neppure
l’ebbrezza del traguardo che si avvicinava. Già, perché, a causa della conformazione
del terreno, più salivi e più l’alberello si nascondeva. All’inizio della scalata
finale non era più visibile e ci si continuava ad arrampicare solo nella certezza
che l’alberello era lì.
Finalmente
la sagoma un po’ malconcia si delineava. Quasi secco lato vento. Ma qualche
gemma sulla cima diceva la vita, la crescita, nonostante tutto. Ce la faceva. Certo non era rigoglioso l’albero e non lo sarà mai
data la postazione, ma il suo compito non è di fare ombra ma di elevare, nel
centro del cielo, il canto della speranza, sfida alla dilaniante potenza del
male, sussurro lieve di una energia vitale mai del tutto eliminata, nota di
tenerezza in un contesto violento.
Tra
i molti, un episodio mi ha scavato dentro e mi ha regalato un “bidoncino” di
sapienza.
I
primi giorni dopo il trapianto del cipresso, si erano dovuti improvvisare dei
turni. In uno dei pomeriggi in cui non c’era nessun volontario, mio figlio,
all’ora del tramonto, si era caricato del suo capiente e altrettanto pesante contenitore
d’acqua, e su, verso l’albero. Devo dire che questa scena tutte le volte che si
ripeteva, mi suscitava una profonda commozione. Pensare che un giovane
ventenne, in vacanza dopo un anno di studio trascorso fuori casa, decidesse di
salire su, da solo, con l’unico obiettivo di irrigare un alberello a rischio,
mi comunicava una tenerezza ed un’urgenza di fermezza non traducibili. Lo osservavo
mentre saliva, per un tratto lo seguivo con lo sguardo, poi solo a fatica
scorgevo la sua figura e il suo passo veloce.
Un
giorno vidi che, poco distante da lui, altre due persone facevano lo stesso
percorso. Pensai si trattasse dei suoi amici che, in ritardo, avevano deciso di
salire anche loro. Ma vedevo che i due tenevano una strana andatura. Non di chi
stava per urlare: «Fraaanceeesco! Aspettaci, che stiamo arrivando».
Pareva che lo seguissero, ma a distanza. Prendo il binocolo. Intravedo più
chiaramente due persone che non conosco. Chi sono costoro, a quell’ora, sulla
montagna? Timore. Francesco giunge in cima e versa la sua acqua ai piedi
dell’albero. Lui non si era accorto di nulla. Dopo qualche secondo giungono i
due. Il bidoncino è a terra, ormai svuotato. Vedo che parlano, in modo concitato,
ma non qualche parola. Parlano a lungo. Mio figlio fa dei segnali, discute
animatamente, afferra il bidoncino, indica la nostra casa. Dopo interminabili
minuti, avvisto una stretta di mano e i due iniziano a scendere. Mi tranquillizzo
un po’, ma ancora non ho idea di cosa sia avvenuto.
Passo
svelto più che mai, mio figlio mi raggiunge, visibilmente sconcertato e insieme
divertito. Aveva dovuto faticare molto per far credere ai due addetti alla
salvaguardia dei boschi che si trovava in cima per irrigare un malconcio
alberello, che lui aveva piantato lì, sulla vetta della montagna, che lui irrigava
regolarmente. «Ma vuoi scherzare? cosa vorresti farci credere?! acqua nel
bidone? per irrigare un arbusto mezzo secco? ma non potresti trovare una
spiegazione meno assurda?!»
Del
tutto incredule e poi fortemente deluse le due guardie forestali, assolutamente
certe di aver fatto il colpaccio: proprio davanti a loro il piromane della
stagione e col bidoncino in mano...
È
innegabile. La realtà è spesso più incredibile, inimmaginabile della fantasia.
Acqua nel bidone per irrigare un albero? Ma è assurdo! Su in montagna, per un
albero, nel bidone non puoi averci messo acqua. Benzina sì. È più realistico. È
più “normale”!
Come
spesso le apparenze sono più convincenti, più verosimili della verità. Ma ciò
che è autenticamente vero scava sotterranei percorsi, invisibili come i filoni
d’oro, come i fiumi che s’intrecciano nel sottosuolo e lo rendono fecondo.
Tracce di ricchezza e vita, segni di possibile vittoria sulla morte. Sussurri
di speranza.
Come quell’alberello,
lì, sulla cima.
Lì sulla cima svetta quel cipresso
nel vento e fra le pietre fa radici.
Dall’alto viene detta
ancora e sempre
la parola
dell’impossibile.
* testo scritto nel 1996.