26 aprile 2018

L’albero della speranza


      
Da quando avevo sei anni, trascorro i mesi estivi in una zona a venti minuti da Palermo, la mia città. Il luogo, a circa 600 metri di altezza, è chiamato San Martino delle Scale. 

 Cinquant’anni fa sembrava un presepio permanente, poche case, un lavatoio, enormi cespugli di more, qualche albero da frutta e pini. Stupendi, maestosi pini e abeti, di differenti specie, rendevano il paesaggio davvero riposante e l’aria fortemente ossigenata. A poche centinaia di metri dal gregge di case, un’abbazia benedettina medioevale, nei secoli centro di cultura e di vita per la borgata. Sulla sinistra della piazza una stradina s’inerpicava più in alto. Dalla conca collinare in cui giaceva il paesino, andando su per quasi quattro chilometri, si giungeva ad un’altezza di circa 800 metri, dove sarebbe sorto il “Villaggio Montano”, la parte elevata di San Martino. Boschi di conifere, conigli, farfalle variopinte e splendidi ciclamini costituivano la scenografia che per decenni ha rallegrato il mio sguardo, posato oltre che sulla flora e sulla fauna anche sullo splendido golfo di Palermo, semiarco azzurroblu abbracciato dalle montagne verdeggianti. Nessun rumore al di fuori del belare delle pecore e del muggito delle vacche, modulato sul suono dei campanacci. E un ininterrotto concerto di cicale, ritmato da armoniosi voli chiacchierini.
Bambina, non sapevo, non capivo il valore degli alberi, dell’albero. Mi sembrava normale tutto quel verde, maestoso e così a portata di tutti, capace di creare spazi di rifugio, di sosta, di giochi profumati.
Poi è giunto il progresso, che in sé sarebbe una cosa bellissima se non fosse collegato con l’avidità del denaro e l’arroganza. La logica mercantile si è andata insinuando un po’ dovunque, nelle metropoli come nei luoghi eremitici, nelle piazze e nei cimiteri. Soldi, produzione e soldi, nient’altro. E così gli alberi sono diventati uno dei tanti bersagli di una mentalità malata, che non sa più porre cose e situazione in un ordine umano. L’albero, l’aria pulita, un bosco, non producono denaro in modo facile e rapido. Altri interessi più immediati si sono sostituiti alla gioia di una salutare passeggiata con gli amici. Altro che salvaguardia dell’albero, rimboschimento e riserve naturali. Molti, troppi “interessi” sono concentrati sull’abbattimento delle piante per… far spazio alla civiltà! Da tutte le parti del mondo giunge purtroppo notizia di tali misfatti. Ma al Villaggio Montano il misfatto è ancora più atroce. Gli alberi non vengono abbattuti per una qualche progettazione, sia pur discutibile, di megamercati o zone industriali. Gli alberi vengono bruciati per meschini interessi legati ad un profitto altrettanto meschino e circoscritto: agevolare il pascolo di una ventina di mucche, possibilità di qualche contratto in più nel corpo forestale abilitato alla… salvaguardia del bosco!
 Ogni estate, chi è rimasto fedele alla sosta estiva in quella località, è costretto ad assistere, impotente, allo scempio. Una o due volte, luglio o agosto, un po’ qui e un po’ lì, qualche brandello di pineta, ancora miracolosamente sopravvissuta, viene ridotta in cenere in pochi minuti. Forme, suoni e colori svaniscono. Fiori e frutti s’inceneriscono. Animali e persone sono costretti alla fuga. Tronchi monumentali si schiantano al suolo come stuzzicadenti. Il fuoco divampa selvaggio, alimentato da un forte vento che, quando comincia a soffiare al mattino è, purtroppo, segno premonitore di quanto accadrà nella serata. Già perché sembra ripetersi un rituale. I fedelissimi del Villaggio pensiamo, magari senza pronunciarla, la fatidica frase: “Oggi è giornata di incendio”. Si ripete un copione drammatico.
E con singolare violenza, avvenne anche quell'anno. Verso le 22, la notte diventa “infuocata“. Il cielo in pochi istanti si trasforma in un’immensa fornace. Sembra d’essere nei pressi di un cratere: le fiamme s’inseguono a velocità impressionante. Arbusti, alberi e foglie d’ogni genere crepitano tragicamente in un caotico concerto di morte. Bisogna abbandonare le case, ora immerse, invece che nel verde, in una coltre di faville e fumo incandescente. Il fuoco è stato appiccato in più punti e, a causa delle raffiche di vento, è impossibile controllare le fiamme. Terrore e rabbia soffiano più violenti dello scirocco. Qualcuno prega.
Come in tutte le situazioni fortemente drammatiche, ciascuno si manifesta nella sua verità più profonda: chi pensa a portar via da casa quel che può, chi fugge, chi si dà da fare, come meglio riesce, escogitando strumenti e possibilità per salvare il salvabile: le proprie cose, certo, ma anche quelle della comunità. Giacché un bosco è una ricchezza per tutti. E lì a colpi di ramazza e di picconi per far tacere il fuoco, per spegnere i focolai, gettando acqua sulle radici degli alberi non ancora del tutto abbrustoliti.
Così, in una notte mortifera, brilla tra la cenere il coraggio di alcuni, si manifesta la generosità di molti e una viscerale solidarietà esplode nel fuoco, tenerissima scintilla di speranza. Già, sempre e dovunque c’è un “resto”, una piccola parte capace di continuare a credere, a sperare, ad amare.
Sul mio terrazzo, nei giorni precedenti al grande incendio, una pianta di ibiscus ci regalava stupendi fiori rossi. Le fiamme quella notte avevano fasciato il terrazzo e la pianta era stata spogliata, tronco incenerito, foglie accartocciate come i fiori. Ma un bocciolo era rimasto sul ramo, misteriosamente, rosso fuoco a cantare che «tutto è sempre possibile».
Questo lo scenario su cui prende forma “la storia dell’albero”. 
(Forse il preludio, nell’economia del racconto, potrà apparire eccessivamente esteso. Ma cos’è una storia senza storia?) 
                                                    °   °   °   °   ° 
L’anno seguente all’incendio descritto, un pomeriggio, mio figlio mi dice: «Mamma, guarda sopra la montagna». Di fronte casa mia si stende armoniosamente una stupenda collina, nella mia infanzia favoloso mare verde ondeggiato dal vento, di cui oggi non rimane che il riverbero nella mia sbrindellata memoria. Nessuna traccia di quel che fu un bosco, all’infuori dei sentieri che prima s’inoltravano tra funghi e ciclamini, adesso solo pietraia luccicante al sole. Anche quella montagna è stata denudata e rudemente violentata. Neppure un albero sulla collina che, in passato, era stata una delle più lussureggianti pinete del Villaggio. Sassi e pietre nel mio sguardo.
«Mamma, guarda sopra la montagna, sulla cima. Non vedi niente?» In effetti non scorgevo che un’esile sagoma simile a un paletto da recinzione, che però non avevo mai notato. «Perché, Francesco, cosa c’è?» Secondo il suo stile essenziale, mio figlio sintetizza: «Sono salito con Roberto e Gabriele, la carriola, la terra, la zappa e un cipressino nato in zona. L’abbiamo trapiantato là.»
Sulla cresta di quella collina, schiaffeggiato dal vento, l’albero-paletto appariva inerme e poco fortunato. Sarebbe potuto crescere altrove, sprofondando le radici nella terra, rinforzando ed allungando il suo tronco, regalando al sole rami e gemme. Ma non sarebbe stato che un albero fra gli alberi.
Lì, sulla cima, quel piccolo cipresso è diventato per molti un segno di rinascita. Una voglia e un’urgenza visibile di affermare che la vita è più forte di ogni violenza e che vale la pena tentare, resistere, fare delle “follie”, anche quando tutti ti dicono che «tanto non serve a niente».
Gli incendi continuano infatti a cadenzare le nostre estati, ma quell’albero è lì. Ha segnato un percorso. Sempre desertificata la collina, ma in cima una traccia di attenzione, un segno di speranza. Una gemma d’amore.
Amici che d’estate vanno e vengono da casa nostra sono saliti fino all’albero per portare il loro contributo d’acqua. I primi mesi, in particolare, le radici dovevano essere alimentate. In cima alla montagna non terra fertile, ma sassi impenetrabili e spine d’ogni tipo. Si decideva di salire. Ognuno con la sua bottiglia o bidoncino colmo fino all’orlo e la gioia di collaborare per far crescere la pianta. «Voglio salire anch’io». E il gruppo s’infoltiva.
Lì, sulla cima. Traccia da sventolare dall’alto. Giovani e anziani in montagna, lungo un sentiero abbastanza semplice all’inizio, ma che poi si concludeva ai piedi di una pietraia. Nessuna pista segnata. Duecento e più metri di salita, tra massi e spine, come capre, da percorrere senza appoggio e senza neppure l’ebbrezza del traguardo che si avvicinava. Già, perché, a causa della conformazione del terreno, più salivi e più l’alberello si nascondeva. All’inizio della scalata finale non era più visibile e ci si continuava ad arrampicare solo nella certezza che l’alberello era lì.
Finalmente la sagoma un po’ malconcia si delineava. Quasi secco lato vento. Ma qualche gemma sulla cima diceva la vita, la crescita, nonostante tutto. Ce la faceva. Certo non era rigoglioso l’albero e non lo sarà mai data la postazione, ma il suo compito non è di fare ombra ma di elevare, nel centro del cielo, il canto della speranza, sfida alla dilaniante potenza del male, sussurro lieve di una energia vitale mai del tutto eliminata, nota di tenerezza in un contesto violento.
Tra i molti, un episodio mi ha scavato dentro e mi ha regalato un “bidoncino” di sapienza.
I primi giorni dopo il trapianto del cipresso, si erano dovuti improvvisare dei turni. In uno dei pomeriggi in cui non c’era nessun volontario, mio figlio, all’ora del tramonto, si era caricato del suo capiente e altrettanto pesante contenitore d’acqua, e su, verso l’albero. Devo dire che questa scena tutte le volte che si ripeteva, mi suscitava una profonda commozione. Pensare che un giovane ventenne, in vacanza dopo un anno di studio trascorso fuori casa, decidesse di salire su, da solo, con l’unico obiettivo di irrigare un alberello a rischio, mi comunicava una tenerezza ed un’urgenza di fermezza non traducibili. Lo osservavo mentre saliva, per un tratto lo seguivo con lo sguardo, poi solo a fatica scorgevo la sua figura e il suo passo veloce.
Un giorno vidi che, poco distante da lui, altre due persone facevano lo stesso percorso. Pensai si trattasse dei suoi amici che, in ritardo, avevano deciso di salire anche loro. Ma vedevo che i due tenevano una strana andatura. Non di chi stava per urlare: «Fraaanceeesco! Aspettaci, che stiamo arrivando». Pareva che lo seguissero, ma a distanza. Prendo il binocolo. Intravedo più chiaramente due persone che non conosco. Chi sono costoro, a quell’ora, sulla montagna? Timore. Francesco giunge in cima e versa la sua acqua ai piedi dell’albero. Lui non si era accorto di nulla. Dopo qualche secondo giungono i due. Il bidoncino è a terra, ormai svuotato. Vedo che parlano, in modo concitato, ma non qualche parola. Parlano a lungo. Mio figlio fa dei segnali, discute animatamente, afferra il bidoncino, indica la nostra casa. Dopo interminabili minuti, avvisto una stretta di mano e i due iniziano a scendere. Mi tranquillizzo un po’, ma ancora non ho idea di cosa sia avvenuto.
Passo svelto più che mai, mio figlio mi raggiunge, visibilmente sconcertato e insieme divertito. Aveva dovuto faticare molto per far credere ai due addetti alla salvaguardia dei boschi che si trovava in cima per irrigare un malconcio alberello, che lui aveva piantato lì, sulla vetta della montagna, che lui irrigava regolarmente. «Ma vuoi scherzare? cosa vorresti farci credere?! acqua nel bidone? per irrigare un arbusto mezzo secco? ma non potresti trovare una spiegazione meno assurda?!»
Del tutto incredule e poi fortemente deluse le due guardie forestali, assolutamente certe di aver fatto il colpaccio: proprio davanti a loro il piromane della stagione e col bidoncino in mano...

È innegabile. La realtà è spesso più incredibile, inimmaginabile della fantasia. Acqua nel bidone per irrigare un albero? Ma è assurdo! Su in montagna, per un albero, nel bidone non puoi averci messo acqua. Benzina sì. È più realistico. È più “normale”!
Come spesso le apparenze sono più convincenti, più verosimili della verità. Ma ciò che è autenticamente vero scava sotterranei percorsi, invisibili come i filoni d’oro, come i fiumi che s’intrecciano nel sottosuolo e lo rendono fecondo. Tracce di ricchezza e vita, segni di possibile vittoria sulla morte. Sussurri di speranza.
Come quell’alberello, lì, sulla cima.

Lì sulla cima svetta quel cipresso
nel vento e fra le pietre fa radici.
Dall’alto viene detta
ancora  e sempre
la parola dell’impossibile.

* testo scritto nel 1996.

19 aprile 2018

A PESCA DI PAROLE



                 Parole come conchiglie.
                In ogni valva una diversa eco del mare.
                Segni di memorie frantumate nell'acqua
                da custodire
                per non sentire sete.


               Un foglio è un oceano.
               Mi immergo e trovo parole

               di carne
                      di storia
                             di me e di tutto.

               Vado a capo per un nuovo tuffo.

10 aprile 2018

LE SCARPE DI IONESCO


                            Un'indimenticabile non-intervista   



Ci sono eventi talmente significativi che, quand’anche non si realizzano, scavano nella nostra storia personale una traccia indelebile. Fu così del mio non-incontro con Ionesco.
Nel settembre del 1985, era stato organizzato a Palermo un pomeriggio letterario davvero speciale: in una splendida villa Liberty, saloni suggestivi, vetrate colorate, quadri d’autore, fiori dappertutto. Ospite d’eccezione: Eugène Ionesco. 



 Mi era stato chiesto di fare da traduttrice: un’occasione splendida per stare accanto al grande Ionesco per tutta la serata, ma insieme un impegno limitante. Il mio sogno infatti era di porgli io delle domande, di ascoltare le sue risposte e i suoi silenzi. E soprattutto incontrare il suo sguardo, accogliere il suo sorriso. Non avrei potuto farlo se fossi stata concentrata a tradurre i suoi dialoghi con i numerosi partecipanti a quell’incontro tanto atteso; decisi pertanto di rifiutare la proposta, impegnandomi comunque a trovare qualcuno capace di evitare... l’incomunicabilità linguistica. E non fu facile, giacché tra i miei studenti più bravi erano in tanti a voler fare quella straordinaria esperienza. Alla fine si decise per Marcella, una simpatica ragazza appassionata del teatro ioneschiano. Insieme ci occupammo del suo abbigliamento; su un delizioso abito rosso fiammeggiante (per riecheggiare l’indimenticabile pompiere) una splendida rosa gialla (“come quelle di mio nonno che era asiatico!”). Quanto a me, avevo nell’armadio un bizzarro camicione con tante sfumature di verde che richiamavano la pelle del rinoceronte; nulla di più adatto per l’occasione, ma, ahimé!, mi mancavano le scarpe. E fu un vero disastro, giacché non riuscivo a trovare quelle giuste, ossia eleganti, adeguate al vestito (un po’ complicato!) e soprattutto comode; la ricerca durò oltre due giorni. Alla fine dovetti accontentarmi di un paio che, solo per il colore ovviamente, si adattavano all’abbigliamento ma non erano per niente comode; “pazienza, mi dissi, tanto non ci sarà da stare in piedi”.
E così agghindata ed emozionatissima, mi recai all’incontro, pensando a quel che avrei chiesto a quell’uomo di cui da anni leggevo e rileggevo gli scritti; m’incuriosiva l’approccio che avrebbe avuto con quel variopinto gruppo di siciliani; avrebbe capito che oltre gli intellettuali curiosi c’era anche una prof con una bella compagnia di studenti che conoscevano ed amavano la sua scrittura?
Arrivati nella villa, per quanto fosse stupenda, il tempo non passava mai; l’incontro era fissato per le 17,30, ma la pendola (già, nella casa c’era un’antica e splendida pendola!) scoccò sei colpi e poi sette... niente. L’atmosfera diveniva stagnante; un anonimo chiacchierio riempiva le stanze, poi all’improvviso, tanti: “Oh! Ah! NOOO! Ma non è possibile!?!” si mescolarono in un suono grigiastro e roco: “Ionesco non verrà; ha avuto un peggioramento al ginocchio e non può affrontare il viaggio”. Ebbi la sensazione fisica di ciò che si indica come una “burla di pessimo gusto”. Mi veniva da piangere e da vomitare; non potevo crederci; non avevo nemmeno considerato la possibilità che Ionesco non sarebbe arrivato a Palermo!?!

Qualche minuto dopo la notizia, i camerieri, per smorzare l’imbarazzo degli organizzatori, cominciarono a volteggiare con piatti stracarichi di leccornie siciliane davvero appetitose e tutti scelsero di consolarsi saporitamente. Ma a me veniva da vomitare. Non sapevo che fare. Guardavo con intensità il percorso che conduceva alla porta da dove ero entrata e aspettavo il momento opportuno per scappar via, All’improvviso mi ricordai che ci avevano parlato di una biblioteca molto particolare, un vero gioiello, che comunque non poteva essere visitata; mi misi a cercarla; trovai un corridoio, dove non c’era nessuno e alla fine una porta; girai la maniglia e... rimasi attonita!
Mi trovavo in un ambiente surreale. Un salone immenso con pareti altissime, interamente ricoperte di libri. Pian piano, dopo lo sprofondamento in quell’oceano di carta, mi accorsi di passerelle, scalette, pedane di legno, che in modo molto irregolare erano collegate su tre piani. Da giù l’effetto era stupefacente. Mi sembrava di sognare. Cominciai a fare qualche passo, con discrezione, ma poi tutti quei libri, quel profumo di pagine antiche mi attirò tanto che non mi resi neppure conto che mi trovavo già nella prima pedana. Passavo da uno scaffale all’altro, come se fossi dentro una visione; m’immersi così profondamente in quel luogo da dimenticarmi dove mi trovavo, l’incontro mancato, gli amici che mangiavano dolcetti e gelati... salivo, scendevo e quelle pedane, così stranamente congiunte fra loro, mi facevano sentire in un magico labirinto; non mi era facile ritornare a quel libro che avevo visto qualche istante prima, perché da un gradino all’altro ero passata ad un altro livello. Anche se frastornata, tuttavia cominciai a rendermi conto che muoversi lì sopra non era per niente facile e, da una passerella all’altra, lo spazio si restringeva; uno dei piedi doveva restare per aria e non riuscivi a posarlo su niente di stabile; ed ecco che ti trovavi un po’ più su o un po’ più giù. Davvero complicato muoversi, ecco perché non ci avevano permesso di entrare; poi, con quelle scarpe, la difficoltà diveniva anche... dolorosa.
Come fare per scendere? Fu proprio appena presi coscienza che dovevo ritornare giù, che non vidi più nulla. No, non ero svenuta! I faretti che illuminavano gli scaffali, le splendide lampade che rendevano l’ambiente ancora più suggestivo, più niente. Buio assoluto. Rimasi paralizzata. Forse qualcuno, da fuori vedendo la biblioteca illuminata. pensando ad una dimenticanza, aveva pensato bene di staccare le luci.
Come scendere giù e trovare l’uscita? Provai a fare qualche passo, ma i piedi andavano sempre al posto sbagliato; sentivo il gradino, mi pareva di salire, ma poi giù di nuovo; persi completamente le coordinate e soprattutto mi resi conto che non avevo molte speranze di arrivare sul pavimento senza combinare guai.
La prima cosa che feci fu di levarmi le scarpe, che complicavano ulteriormente la situazione e tentai di scendere: di qua… di là… in giù… in su. Niente. Mi veniva da piangere. Per non farmi prendere dal panico, decisi di fermarmi, di sedermi e di calmarmi. Dopo un tempo fuori del tempo (mi sembrava che la pendola stesse suonando il suo millesimo colpo...) mi ritrovarono, seduta, sulla pedana del secondo piano e... con le scarpe in mano. Qualcuno era entrato a cercare qualcosa ed il mio: “ehi! aiutoooo!”, urlato a squarciagola, lo aveva bloccato al pavimento. “Ma chi c’è qui dentro?”

Il pomeriggio, nonostante l’assenza fisica di Eugène, era stato squisitamente ioneschiano.
-    l’incontro non c’era stato;
-    io non avevo potuto intervistarlo;
-    mi ero persa in un labirinto di scale e di libri.

Ma, oltre quel niente, mi era rimasto un “segno”, che mi fa ripensare sorridendo a quella bizzarra esperienza: non un fiore – come ne Le Solitaire – né una scala d’argento, ma un viale di libri e... le scarpe di Ionesco.

° ° °

Ho ripensato spesso a questo episodio, vissuto in un pomeriggio di giugno in una splendida villa di Palermo. Ma il ricordo, di volta in volta si è andato arricchendo.
La presenza di Ionesco, ha sempre più preso corpo nella mia immaginazione, diventando sempre più reale. Sprofondato in una di quelle magnifiche poltrone, di fronte a me, ogni volta mi sembra di porgli altre domande e di ascoltare altre e sempre più interessanti risposte.
Insomma, anche se solo nell’immaginazione, l’intervista l’ho fatta, rifatta, sognata, ri-creata; un’intervista pienamente in linea con la dimensione onirica della scrittura di Ionesco

08 aprile 2018

BARCARELLO, MON AMOUR



La voce dei luoghi 

Tutto ha una voce. Pietre, monumenti, natura, luoghi, animali. E persone.
Tutto parla, o meglio potrebbe parlarci, se fossimo in grado di ascoltare. Giacché si ascolta solo ciò che si conosce, ciò che si ri-conosce, ciò che amiamo. Cose e persone.
Così gli spazi che abitiamo, i luoghi che visitiamo, le persone che incontriamo parlano a chi li accoglie, a chi sceglie di abitarli e si lascia invadere dallo loro più intima essenza, perché ogni cosa, ogni persona hanno una storia, mille storie che prescindono da noi, e solo se ci si immerge dentro, se ci si lascia "invadere" avviene la magia della connessione, l’incantesimo dell’incontro, l’esperienza indicibile di sentire di esistere e che altro e altri esistono, con la loro storia di bellezza e di vita.

E così qualcosa o qualcuno fino a quel momento “estraneo” entra a far parte della tua storia personale, ti diviene familiare, ti abbraccia e ti parla nell’intimo, tu lo ri-conosci eppure lo ammiri come se fosse la prima volta ed è proprio questo stupore che ti consente di percepirne una bellezza conosciuta, ma ancora e sempre da scoprire.


 
Barcarello è uno dei luoghi di cui amo ascoltare la voce e la sua parola continua a scavarmi nel profondo.

Seduta sulle aguzze rocce nere, era il mio luogo preferito per preparare i miei esami universitari e anche d’inverno, sola col mio giaccone e lo zaino carico di libri, passavo lunghe ore nel mio “studio” speciale, ricevendo stimoli ed energia per respirare profondo, lasciandomi abbracciare dal vento impregnato di salsedine. Riconosco che oltre cinquant’anni fa non era consueto vedere qualcuno sulla scogliera deserta ancor più se donna, ancor più se giovane e graziosa, ancor più se d’inverno (a quei tempi, prima del 15 luglio nessuno andava a mare, a parte gli stranieri…)

A Barcarello ho abitato per parecchi anni in una roulotte posteggiata in un campeggio proprio sulla scogliera: da aprile a settembre (a parte agosto, mese che trascorrevamo a san Martino delle scale) ci trasferivamo in quel campeggio col nostro primogenito – prima della sua nascita privilegiavamo una tenda canadese, decisamente non adeguata a biberon da disinfettare e ciripà da lavare di continuo…
Certo, anche in questo caso devo riconoscere che era un po’ strana la mia scelta: allora i campeggi erano frequentati solo da turisti ed era alquanto bizzarro vederci uscire dalla roulotte vestiti “da lavoro”: mio marito, da perfetto bancario, in giacca e cravatta, io con la borsa carica di libri e la gonna a pieghe, in attesa che arrivasse la baby sitter, che avrebbe accudito il nostro Luigino…
Già, strano, ma, almeno nella mia esperienza, dalle stranezze sono sempre nate esperienze per me arricchenti e insostituibili, certamente ignote e ancor più “incomprensibili” a chi preferisce vivere una vita “normale”, con persone “normali” e passatempi “normali" e programmati, che per me sono sempre stati insapori, sterili, incapaci di farmi gustare la bellezza e la vita, nelle sue imprevedibili forme.

Barcarello i suoi colori e profumi, le sue rocce, i prati di alghe su cui è talmente accarezzante e gratificante poggiare i piedi da non pensare neppure alle insidiose rocce o ai granchi in attesa di mordicchiare qualcosa.
Barcarello e il suo tetto d’azzurro immerso nell’orizzonte.
Barcarello e la sua brezza di vento imbevuta di salsedine.
Barcarello e l’Isola delle Femmine, con i suoi tramonti nello sfondo.
Barcarello e la montagna alle spalle, con la sua forma di cane accoccolato.
Barcarello e il volo dei gabbiani.
Barcarello e le sue barche variopinte.
                                      Barcarello, il mare nell’anima.