02 settembre 2019

Attenzione all'ATTENZIONE!


La persona è un essere relazionale, chiamato al dialogo.
Tutta la vita dovrebbe essere un cammino di crescita nel dialogo: a) con se stessi: consapevolezza del percorso esistenziale da vivere; b) con gli altri: rapporti di condivisione, di collaborazione, di amicizia; c) col mondo: capacità di saper vedere, di saper contemplare, di saper costruire spazi più umani; d) con Dio: preghiera e vita spirituale.
Solo approfondendo la dimensione dialogica si va arricchendo la vita interiore. L’esigenza di rapporti profondi, autentici non è pertanto un passatempo per estroversi, ma dovrebbe costituire lo stile specifico di ogni persona che sceglie di vivere umanamente..
Spesso invece si stabiliscono relazioni solo in funzione delle cose da fare e, esauritasi la motivazione che ha determinato il cosiddetto incontro, tutto evapora in un inspiegabile e mortifero nulla.
Ma un vero incontro è un evento, e ogni evento è una nascita, una nuova vita che deve dar vita ad altra vita.
C’è pertanto da chiedersi perché questo non avviene, o almeno non avviene che raramente.
Di questo immenso campo di indagine mi soffermerò sul ruolo dell’attenzione, che ritengo essenziale alla nascita e al consolidamento del dialogo nelle sue svariate forme.

Il contesto in cui viviamo, strutturato sulla fretta e sulla conseguente agitazione e superficialità, lo stile egocentrico per cui l’io agisce volto unicamente ad imporsi a costo di tutto, rischia di trasformare il nostro vivere sociale in uno stato di aggressione continuata, in cui spesso le migliori energie vengono disperse non tanto nel “fare Novità e Speranza”, quanto nel difendersi da tutte le forme di prevaricazione in una società in cui mantenersi interiormente liberi è già un’impresa titanica.
Tale abitudine allo scontro quotidiano fa sì che non vi sia più tempo per l’incontro vero e, quand'anche si realizzasse, è davvero raro che ci si impegni per alimentarlo adeguatamente perché porti il suo frutto d’amore e di vita.
Causa e segno esteriore di quanto accennato è la disattenzione, la trascuratezza con cui si gestiscono le conoscenze, a meno che non si tratti di persone da cui si deve ricavare qualcosa...!
Ecco allora il richiamo: Attenzione all'attenzione!

Tutti abbiamo bisogno di avere dei riscontri. Abbiamo bisogno di sapere che cosa ciò che si è detto o fatto abbia prodotto nell'altro, non certo per ricercare gratificazioni, ma per quella sana esigenza di essere guidati, corretti, aiutati a vedere ciò che da soli non si può talvolta neppure intuire.
E invece è rarissimo che qualcuno ti si faccia incontro per farti sapere quel che la tua parola, il tuo silenzio, il tuo modo di essere ha suscitato in lui. Se questo avviene, è quasi sempre solo per farti notare che hai sbagliato, che hai detto/fatto un’insensatezza, ma quasi mai per sollecitarti, sostenerti, consigliarti perché tu sappia sempre più adeguatamente sviluppare e condividere le tue capacità.
Eppure nessuno è in grado di conoscere se stesso senza l’altro.

Occorre aver chiaro che una risonanza autenticamente libera è proporzionata allo spessore interiore.
Ecco allora la drammatica constatazione: l’assenza di una vita interiore fa sì che l’altro, la sua parola, il suo amore non suscitino nulla in me, perché io mi trovo accartocciato sul mio io e dunque mi comporto come se niente e nessuno possa interessarmi, penetrarmi, arricchirmi.
L’insignificanza interiore, con la pretesa autosufficienza che ne deriva, comporta pertanto la trascuratezza, l’indifferenza, quel grigio sentire che crea intorno un clima irrespirabile che soffoca ogni germe di vera vita, ovvero la costante fibrillazione per le mille cose da fare, che altro non sono che una squallida traduzione dell'individualistico bisogno di apparire.
Ma dovrebbe forse esserci qualcosa di più urgente che gustare e alimentari i valori autenticamente umani?
Nessuno ha il diritto di ”consumare” la vita, di spegnere l’amore. Quando ad una parola d’amore rispondiamo col mutismo, quando non sappiamo apprezzare il dono che l’altro ci fa di sé, quando invece che far fruttificare un gesto, una parola, un progetto rendiamo sterile quel che riceviamo, bruciamo con la nostra invidia, superbia, arroganza un bocciolo di vita: in modo non appariscente, ma non per questo meno violento, diveniamo protagonisti della “cultura dell’odio e della morte”.
La mancanza di attenzione amorosa, di gioiosa accoglienza di ciò che l’altro è, di entusiasmo per ciò che potrebbe essere, anche con il nostro aiuto, è un atto di carità abortito, è un frammento di vita consumato per sempre.
Ogni uomo ha bisogno dell’amore per vivere e non c’è nulla di prioritario rispetto al dare amore, al fare speranza, a dare fiducia a chi ci sta accanto.
Saper dire grazie a chi ci ha fatto del bene, saper riconoscere la gioia che ci è stata regalata, saper essere propositivi in relazione ad un consiglio che ci è stato richiesto o a un dubbio che ci è stato sottoposto: tutto questo è attenzione.
Saper prevenire il bisogno che ha l’altro di sapere se ciò che ha fatto-detto è stato positivo, saper correggere, saper suggerire è attenzione.
Saper aiutare l’altro a conoscersi, a crescere, sapersi stupire e gioire delle altrui bellezze e capacità è attenzione.
Lo sguardo empatico conosce, la parola d’incoraggiamento promuove le potenzialità di ciascuno. Un segno di attenzione amorosa equivale a fare speranza, perché sollecita l’altro ad essere e ad essere di più.
E allora, attenzione all’attenzione!
Se vogliamo essere persone viventi, esseri capaci di relazioni feconde, scegliamo uno stile di vita in cui l’attenzione a tutto/i guidi sempre più la mente, il cuore, le mani. Corrispondiamo generosamente a quanto ci viene offerto, perché lo scambio fecondo produca fiori di vita inattesi ma sempre possibili.

* il testo è alquanto datato; scritto non ricordo quando, è stato pubblicato in Fascino di essere, ed. Paoline 1998.

17 agosto 2019

L'albero della speranza


       

Ogni realtà ha una sua storia. Se la conosciamo, quell'oggetto, quell'evento, quella persona acquisisce spessore, risplende di una bellezza che altri non possono scorgere. Così è di quest’alberello di nessun pregio estetico, ma la cui storia è talmente intensa da renderlo, per chi lo “conosce”, qualcosa di speciale.


°    °     °

Da quando avevo sei anni, trascorro i mesi estivi in una zona a venti minuti da Palermo, la mia città. Il luogo, a circa 600 metri di altezza, è chiamato San Martino delle Scale.

Cinquant’anni fa sembrava un presepio permanente, poche case, un lavatoio, enormi cespugli di more, qualche albero da frutta e pini. Stupendi, maestosi pini e abeti, di differenti specie, rendevano il paesaggio davvero riposante e l’aria fortemente ossigenata. A poche centinaia di metri dal gregge di case, un’abbazia benedettina medioevale, nei secoli centro di cultura e di vita per la borgata. Sulla sinistra della piazza una stradina s’inerpicava più in alto. Dalla conca collinare in cui giaceva il paesino, andando su per quasi quattro chilometri, si giungeva ad un’altezza di circa 800 metri, dove sarebbe sorto il “Villaggio Montano”, la parte elevata di San Martino. Boschi di conifere, conigli, farfalle variopinte e splendidi ciclamini costituivano la scenografia che per decenni ha rallegrato il mio sguardo, posato oltre che sulla flora e sulla fauna anche sullo splendido golfo di Palermo, semiarco azzurroblu abbracciato dalle montagne verdeggianti. Nessun rumore al di fuori del belare delle pecore e del muggito delle vacche, modulato sul suono dei campanacci. E un ininterrotto concerto di cicale, ritmato da armoniosi voli chiacchierini.

Bambina, non sapevo, non capivo il valore degli alberi, di ogni albero. Mi sembrava normale tutto quel verde, maestoso e così a portata di tutti, capace di creare spazi di rifugio, di sosta, di giochi profumati.

Poi è giunto il progresso, che in sé sarebbe una cosa bellissima se non fosse collegato con l’avidità del denaro e l’arroganza. La logica mercantile si è andata insinuando un po’ dovunque, nelle metropoli come nei luoghi eremitici, nelle piazze e nei cimiteri. Soldi, produzione e soldi, nient’altro. E così gli alberi sono diventati uno dei tanti bersagli di una mentalità malata, che non sa più porre cose e situazione in un ordine umano. L’albero, l’aria pulita, un bosco, non producono denaro in modo facile e rapido. Altro che salvaguardia della natura, rimboschimento e riserve naturali. Molti, troppi “interessi” sono concentrati sull’abbattimento delle piante per… far spazio alla civiltà!

 Ogni estate, chi è rimasto fedele alla sosta estiva in quella località, è costretto ad assistere, impotente, allo scempio. Una o due volte, luglio o agosto, un po’ qui e un po’ lì, qualche brandello di pineta, ancora miracolosamente sopravvissuta, viene ridotta in cenere in pochi minuti. Forme, suoni e colori svaniscono. Fiori e frutti si accartocciano. Animali e persone sono costretti alla fuga. Tronchi monumentali si schiantano al suolo come stuzzicadenti. Il fuoco divampa selvaggio, alimentato da un forte vento che, quando comincia a soffiare al mattino è, purtroppo, segno premonitore di quanto accadrà nella serata. Si ripete un copione drammatico. E con singolare violenza, avvenne anche quell'anno.

17 agosto 1994. Verso le 22, la notte diventa “infuocata“. Il cielo in pochi istanti si trasforma in un’immensa fornace. Sembra d’essere nei pressi di un cratere: le fiamme s’inseguono a velocità impressionante. Arbusti, alberi e foglie d’ogni genere crepitano tragicamente in un caotico concerto di morte. Bisogna abbandonare le case, immerse in una coltre di faville e fumo incandescente. Il fuoco è stato appiccato in più punti e, a causa delle raffiche di vento, è impossibile controllare le fiamme. Terrore e rabbia soffiano più violenti dello scirocco. Qualcuno prega.

Come in tutte le situazioni fortemente drammatiche, ciascuno si manifesta nella sua verità più profonda: chi pensa a portar via da casa quel che può, chi fugge, chi si dà da fare, come meglio riesce, escogitando strumenti e possibilità per salvare il salvabile: le proprie cose, certo, ma anche quelle della comunità. Giacché un bosco è una ricchezza per tutti. E lì a colpi di ramazza e di picconi per far tacere il fuoco, per spegnere i focolai, gettando acqua sulle radici degli alberi non ancora del tutto abbrustoliti.

Così, in una notte mortifera, una viscerale solidarietà germina nel fuoco, tenerissima scintilla di speranza. Già, sempre e dovunque c’è un “resto”, capace di continuare ad amare.

Sul mio terrazzo, nei giorni precedenti al grande incendio, una pianta di ibiscus ci regalava stupendi fiori rossi. Le fiamme quella notte avevano fasciato il terrazzo e la pianta era stata spogliata, tronco incenerito, foglie raggrinzite come i fiori. Ma un bocciolo era rimasto sul ramo, misteriosamente, rosso fuoco a cantare che tutto è sempre possibile.

Questo lo scenario su cui prende forma “la storia dell’albero”. 

p.s. Forse il preludio, nell’economia del racconto, potrà apparire eccessivamente esteso. Ma cos’è una storia senza storia?  
      
                                                          °     °     °

               

L’anno seguente all’incendio descritto, un pomeriggio, mio figlio mi dice: «Mamma, guarda sopra la montagna». Di fronte casa mia si stende armoniosamente una stupenda collina, nella mia infanzia favoloso mare verde ondeggiato dal vento, di cui oggi non rimane che il riverbero nella mia sbrindellata memoria. Nessuna traccia di quel che fu un bosco, all’infuori dei sentieri che prima s’inoltravano tra funghi e ciclamini, adesso solo pietraia luccicante al sole. Anche quella montagna è stata denudata e rudemente violentata. Neppure un albero sulla collina che, in passato, era stata una delle più lussureggianti pinete del Villaggio. Sassi e pietre nel mio sguardo.

Mamma, guarda sopra la montagna, sulla cima. Non vedi niente?
In effetti non scorgevo che un’esile sagoma simile a un paletto da recinzione, che non avevo mai notato.
Perché, Francesco, cosa c’è?
 Secondo il suo stile essenziale, mio figlio sintetizza: “Sono salito con Roberto e Gabriele, la carriola, la terra, la zappa e un cipressino nato in zona. L’abbiamo trapiantato là”.

Sulla cresta di quella collina, schiaffeggiato dal vento, l’albero-paletto appariva inerme e poco fortunato. Sarebbe potuto crescere altrove, sprofondando le radici nella terra, rinforzando ed allungando il suo tronco, regalando al sole rami e gemme. Ma non sarebbe stato che un albero fra gli alberi.

Lì, sulla cima, quel piccolo cipresso è diventato per molti un segno di rinascita. Una voglia e un’urgenza visibile di affermare che la vita è più forte di ogni violenza e che vale la pena tentare, resistere, fare delle “follie”, anche quando tutti ti dicono che “tanto non serve a niente”.

Gli incendi continuano infatti a cadenzare le nostre estati, ma quell’albero è lì. Ha segnato un percorso. Amici che d’estate vanno e vengono da casa nostra sono saliti sulla montagna per portare il loro contributo d’acqua. I primi mesi, in particolare, le radici dovevano essere alimentate. In cima non terra fertile, ma sassi impenetrabili e spine d’ogni tipo. Si decideva di salire. Ognuno con la sua bottiglia o bidoncino colmo fino all’orlo e la gioia di collaborare per far crescere la pianta. “Voglio salire anch’io”. E il gruppo s’infoltiva.

Giovani e anziani in montagna, lungo un sentiero abbastanza semplice all’inizio, ma che poi si concludeva ai piedi di una pietraia. Nessuna pista segnata. Duecento e più metri di salita, tra massi e spine, come capre, da percorrere senza appoggio e senza neppure l’ebbrezza del traguardo che si avvicinava. Già, perché, a causa della conformazione del terreno, più salivi e più l’alberello si nascondeva. All’inizio della scalata finale non era più visibile e ci si continuava ad arrampicare solo nella certezza che l’alberello era lì.

Finalmente la sagoma un po’ malconcia si delineava. Quasi secco lato vento. Ma qualche gemma sulla cima diceva la vita, la crescita, nonostante tutto. Ce la faceva. Certo non era rigoglioso l’albero e non lo sarà mai data la postazione, ma il suo compito non è di fare ombra ma di elevare, nel centro del cielo, il canto della speranza, sfida alla dilaniante potenza del male, sussurro lieve di una energia vitale mai del tutto eliminata, nota di tenerezza in un contesto violento. Lì, sulla cima. Traccia da sventolare dall’alto. Allora come oggi.
                                                          = = = = = = =


    Tra i molti, un episodio mi ha scavato dentro e mi ha regalato un “bidoncino” di sapienza.

I primi giorni dopo il trapianto del cipresso, si erano dovuti improvvisare dei turni. In uno dei pomeriggi in cui non c’era nessun volontario, mio figlio, all’ora del tramonto, si era caricato del suo capiente e altrettanto pesante contenitore d’acqua, e su, verso l’albero. Devo dire che questa scena tutte le volte che si ripeteva, suscitava in me una profonda commozione. Pensare che un giovane ventenne, in vacanza dopo un anno di studio trascorso fuori casa, decidesse di salire su, da solo, con l’unico obiettivo di irrigare un alberello a rischio, mi comunicava una tenerezza ed un’urgenza di fermezza non traducibili. Lo osservavo mentre saliva, per un tratto lo seguivo con lo sguardo, poi solo a fatica scorgevo la sua figura e il suo passo veloce.

Un giorno vidi che, poco distante da lui, altre due persone facevano lo stesso percorso. Pensai si trattasse dei suoi amici che, in ritardo, avevano deciso di salire anche loro. Ma vedevo che i due tenevano una strana andatura. Non di chi stava per urlare: “Fraaanceeesco! Aspettaci, che stiamo arrivando”. Pareva che lo seguissero, ma a distanza. Prendo il binocolo. Intravedo più chiaramente due persone che non conosco. Chi sono costoro, a quell’ora, sulla montagna? Timore. Francesco giunge in cima e versa la sua acqua ai piedi dell’albero. Lui non si era accorto di nulla. Dopo qualche secondo giungono i due. Il bidoncino è a terra, ormai svuotato. Vedo che parlano, in modo concitato, ma non qualche parola. Parlano a lungo. Mio figlio fa dei segnali, discute animatamente, afferra il bidoncino, indica la nostra casa. Dopo interminabili minuti, avvisto una stretta di mano e i due iniziano a scendere. Mi tranquillizzo un po’, ma ancora non ho idea di cosa sia avvenuto.

Passo svelto più che mai, mio figlio mi raggiunge, visibilmente sconcertato e insieme divertito. Aveva dovuto faticare molto per far credere ai due addetti alla salvaguardia dei boschi che si trovava in cima per irrigare un malconcio alberello, che lui aveva piantato lì, sulla vetta della montagna, che lui irrigava regolarmente.
Ma vuoi scherzare? cosa vorresti farci credere?! acqua nel bidone? per irrigare un arbusto mezzo secco? ma non potresti trovare una spiegazione meno assurda?!
Del tutto incredule, e poi fortemente deluse, le due guardie forestali, assolutamente certe di aver fatto il colpaccio: proprio davanti a loro il piromane della stagione. E pure col bidoncino in mano...

È innegabile. La realtà è spesso più inimmaginabile della fantasia. Su in montagna, per un albero, nel bidone non puoi averci messo acqua. Benzina sì. È più “normale”!

Come spesso le apparenze sono più convincenti della verità! Ma ciò che è autenticamente vero scava sotterranei percorsi, invisibili come i filoni d’oro, come i fiumi che s’intrecciano nel sottosuolo e lo rendono fecondo. Tracce di ricchezza e vita, segni di possibile vittoria sulla morte. Sussurri di speranza. Come quell’alberello, lì, sulla cima.


Lì sulla cima svetta quel cipresso
nel vento e tra le pietre fa radici.
Dall’alto viene detta, ancora e sempre, la parola dell’impossibile.


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p.s. Ormai da parecchi anni non sono più fisicamente in grado di fare la scarpinata per andare a trovare l'alberello. Quando Francesco e famiglia - e amici, quando sono con noi - salgono sulla cima, li seguo con lo zoom della macchina fotografica, - dovrò ricomprare un binocolo! - e riprovo quell'intenso stupore di sempre, arricchito dalla bellezza della fedeltà.
Vivere è PRENDERSI CURA DI...

* L’alberello è stato piantato dopo l'incendio che ha devastato il Villaggio Montano nel 1994. Oggi ha ventiquattro anni e resiste al vento e alla solitudine, in attesa della visita annuale che continua a ricevere. La foto è di qualche giorno fa, 4 agosto 2019.


* Il testo è stato da me elaborato nel 1998.
Oggi, nel venticinquesimo dell'incendio, ho aggiunto la foto dell'ultima visita della settimana scorsa, da me seguita con la macchina fotografica.

14 marzo 2019

SEMPRE IN CAMMINO MA NON DA SOLA

A cosa può servire la letteratura
se non aiuta a vivere?
Jean Sulivan

Si è concluso ieri, 13 marzo 2019, il nono corso di scrittura promosso dall'associazione Partecipalermo e da me guidato.


Un gruppo numeroso: oltre venti persone che non conoscevo, più una decina di partecipanti a precedenti gruppi, che hanno scelto di partecipare da uditori (ieri parecchi assenti, purtroppo...).  
Attenzione al linguaggio: questo è stato ancora una volta il dinamismo dell'attività proposta, così come sperimentare la scrittura  come strumento privilegiato per fare esperienza del peso delle parole e del ruolo che esse hanno nelle relazioni umane.
Diversi i registri suggeriti e numerose le esercitazioni praticate, elaborate anche attraverso un gruppo facebook, denominato “parole intrecciate che, come sempre, si è rivelato strumento utilissimo per dilatare i nostri tempi di scrittura ben oltre le ore degli incontri previsti e per potere approfondire tematiche e sperimentazioni. E conoscenza non superficiale tra i partecipanti.
Che il linguaggio sia abusato e stantio è risaputo, ma forse è proficuo accrescere la consapevolezza che ciascuno può prendersene cura, ogni giorno, partecipando così ad un recupero del ruolo identitario della parola, che è quello della comunicazione profonda e creativa.
Una scommessa, una possibilità, un impegno. Anche in quest’ambito a ciascuno è dato di poter «fare qualcosa, ciascuno come può e come sa», sperando di contribuire all’umanizzazione dei propri incontri, dialoghi, relazioni…

Abbiamo iniziato il nostro corso il 30 gennaio e all'inizio, in molti, c’era solo il desiderio di scrivere, di migliorare le proprie competenze… Poi pian piano si è cominciato a costituire un gruppo di persone capace di attenzione anche per la scrittura degli altri, interessato a mondi interiori sconosciuti e da esplorare. Abbiamo sperimentato una scrittura non solo e non sempre rinchiusa nella propria storia personale, ma intuita come una finestra su innumerevoli altri ignoti universi…
Già, perché ha consistenza e ci sostiene nel nostro personale cammino solo «solo ciò che germina nel profondo» (Jean Sulivan). E la scrittura consente alla parte viscerale del nostro essere di venir fuori... almeno in parte.
Maturare, attraverso la scrittura, il desiderio e la scelta di non servirsi di parole fotocopiate, logore e anonime, ma avere la consapevolezza e maturare la responsabilità che le nostre parole sono rivolte ad un tu, a tanti tu, a possibili “noi”… e che migliorando le relazioni sociali, possiamo partecipare, nel poco o nel molto, ad un modo nuovo di abitare la nostra città, di dar forma alla nostra personale storia.

Tra le esercitazioni svolte, ho curato la raccolta di brevi racconti elaborati attraverso la contaminazione di brani elaborati da altri “compagni”, così da sollecitare la lettura, il confronto e verificare le connessioni tra le scritture e i loro autori. 
Ho scelto di applicare, in ambito di scrittura, l'importante insegnamento di Manifesta12 che, con il Giardino Planetario, ha risvegliato la  memoria della più profonda identità della nostra città: uno straordinario e millenario spazio di incroci, intrecci e contaminazioni, verificando concretamente come, le connessioni, talvolta faticose perché imprevedibili, possano essere fonte di "visione" e di "creazione" di nuovi ed entusiasmanti percorsi. 
Ho preparato un ebook sfogliabile con i venti testi che sono stati elaborati, ciascuno con un’immagine scelta da ciascuno degli autori, un segno concreto e condivisibile del nostro percorso, dove tutti coloro che lo hanno desiderato hanno avuto il loro spazio e la possibilità di essere protagonisti di una “scrittura partecipata”. Poco importa il risultato, ma è stata una sfida per abbattere l'individualismo, un pericoloso componente della scrittura e, visionando la raccolta, possiamo dire di aver vinto la scommessa e raggiunto l'obiettivo di un percorso insieme personale e condiviso.

Abbiamo concluso il corso con un momento festoso, per sperimentare concretamente che ogni attività, scrittura compresa, deve riguardare tutta la persona, ovviamente con modalità e intensità variegate. Non è mai bene assolutizzare qualcosa, neppure un “bene” come la scrittura.
Un grande grazie pertanto a chi ieri ha contribuito, con semplicità, oltre che con la presenza, anche in modo “materiale”: fiori, torta, contributo per l'associazione, scatti fotografici… e sorrisi!

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A conclusione di questo percorso, il mio grazie a tutti voi che avete partecipato: grazie per l’attenzione dimostrata, per il dono delle vostre parole, delle vostre scritture e della vostra presenza.
Se il corso è stato un’esperienza positiva, questo si è realizzato grazie a ciascuno di voi, perché anche una brava guida, un’insegnante/insognante (pur con un’esperienza mezzo secolare 😊) ben poco può fare senza una classe attenta e diligente come la vostra.

      Col corso abbiamo abbozzato l’inizio di un
per-corso che, mi auguro, possa proseguire con altre e sempre nuove modalità.

Vi abbraccio, tutti e ciascuno, e vi ringrazio per avermi regalato questa nuova indimenticabile SCRITTENZA (scrittura-esperienza, per i non addetti ai lavori... 😊). 
                        malb


01 febbraio 2019

È SEMPRE LA PRIMA VOLTA...

Primo incontro del nono corso di scrittura partecipata promosso da Partecipalermo. Risonanza di malb.


  Entrai in quella che sarebbe stata titolata Aula Cocchiara per iniziare il mio primo corso all'Università esattamente mezzo secolo fa. Era fine gennaio 1969. Appena laureata, il mio prof e maestro, don Antonio Corsaro, mi "lanciò" in un'aula gremita per la mia prima lezione di lingua francese. Avevo 22 anni.
     Ricordo quell'istante con tutti i suoi dettagli, nonostante i decenni trascorsi e le mille esperienze vissute. Dentro di me, in un silenzio assordante, il mio urlo interiore più o meno sillabava:
"Maria Antonietta, se non muori adesso, vorrà dire che sei immortale..."
   
   Ero bloccata dalla timidezza e dalla paura e, anche se nessuno ci crede perché ormai ho imparato a convivere serenamente col mio modo di essere, è la stessa esperienza che rivivo ogni volta che inizio un nuovo corso. Certo adesso ho il vantaggio delle variegate avventure vissute nei contesti più diversi, conosco molto meglio le mie fragilità e le mie capacità, ma il tremore dinanzi all'ignoto, il balbettio interiore dinanzi al mistero dell'incontro con persone con cui poter instaurare nuove relazioni e condividere sogni e passioni, quelli sono rimasti immutati. 
   Quell'Io sono responsabile della mia rosa non cessa di stimolare la mia coscienza ogni volta che incontro una persona nuova, ogni volta che inizio un nuovo percorso. Un incontro profondo può cambiare qualcosa, tanto, talvolta anche tutta la nostra vita e ciascuno di noi è responsabile delle persone che incontra, delle parole che dice e ancor di più di quelle che scrive.
~   ~   ~
      La parola crea. La parola uccide.
   In queste due affermazioni sono contenute le innumerevoli definizioni della parola che ne illustrano il ruolo poliedrico che essa ha da sempre avuto in ambito individuale e sociale.
       La parola crea ponti e/o muri.
       La parola accarezza e/o violenta. 
     E noi, più o meno consapevolmente, siamo le nostre parole, siamo intimamente connessi col nostro modo di comunicare.

Viviamo in un contesto in cui è ormai evidente - quasi a tutti - che il linguaggio è  stato mercificato e utilizzato per fini che spesso nulla hanno a che fare con l’identità originaria della parola, che è quella di stabilire comunicazione, intessere relazioni, intrecciare legami, creare uno spazio/tempo per un vero dialogo, essenziale per qualsiasi forma di partecipazione.
 Linguaggio abusato il nostro, violato, svuotato di umanità.
 E allora? Per un’ecologia del linguaggio, necessaria per stabilire relazioni umane, per operare attivamente nel sociale e creare e abitare spazi solidali e salutari, occorre credere che la parola abbia un ruolo importante e che la scrittura possa aiutare ad accrescere il potenziale umano del singolo e l’impegno ad essere una presenza attiva ed incisiva nel proprio ambito.

   Ben affermava Gianmario Lucini: “La Poesia è intervento, volendo precisare che scrivere, comporre versi, sviluppare l’immaginario non è - anche se spesso corre il rischio di esserlo – un passatempo per sfaccendati. Un igiene delle parole, un’attenzione nella ricerca dell’espressione corretta, chiara, semplice ma efficace, è un percorso di crescita personale da non trascurare, che certamente avrà le sue ricadute positive.

   
    Da questi convincimenti, nel desiderio di poter rendere un servizio utile, unendo passione ed esperienza, circa quattro anni fa, per l’Associazione Partecipalermo ho iniziato a organizzare dei corsi di scrittura creativa che, in itinere, si sono trasformati in corsi di scrittura partecipata.
   Di che si tratta? Apparentemente nulla di nuovo. Già da decenni, in Italia, sono nate numerose esperienze di scrittura collettiva, ossia un’elaborazione di testi che coinvolge più autori, a cui si affianca la scrittura collaborativa, che si avvale, in ambito informatico e industriale, dei contributi dei membri del gruppo, per il raggiungimento di un progetto preciso. Ma questa esperienza di “scrittura partecipata” non ha niente a che fare con metodologie scientifiche preconfezionate. Se dovessi risalire indietro, un’ispirazione avrei potuto ritrovarla nella profetica esperienza di don Milani a Barbiana… ma devo confessare che non ci avevo proprio pensato quando ho iniziato “a tentoni” questo percorso, sospinta unicamente dalla scelta di svolgere un servizio per la città e di farlo mettendo a disposizione la mia esperienza di docente di lingua e letteratura francese e la mia passione per i libri, per la scrittura e le parole.

     Al corso di “scrittura partecipata”, parole sorridenti, ossia?
Ossia parole che si aprono, parole inclusive che hanno una profondità: qualcosa da comunicare e qualcosa da accogliere, come il nostro volto quando sorride per incontrare uno sguardo amicale. E non perché si è ingenuamente “ottimisti”, né perché si voglia affermare irresponsabilmente che tutto vada sempre bene…  ci sono anche i sorrisi amari. 
     Parole sorridenti e propositive;
     parole che sollecitano impegno e scavo nel profondo; 
    parole concrete e creative insieme perché, per essere umane,  le parole devono essere  “pesanti”, ossia cariche di vita, di assunzione di responsabilità e insieme devono essere“leggere”.
     Leggere e trasparenti, non stagnanti, ma in movimento, “frecce verso un’altra riva”. (Jean Sulivan)
    Parole che si pongono in attesa di altre parole, parole per prendere parte ad un testo più ampio della pagina del proprio diario. 
     Parole, come tasselli di un mosaico unico da comporre insieme ad altri.
     Parole Per Partecipare.
     Parole autentiche, parole vere, non nel senso che pretendono di annunciare la verità, piuttosto che rispondono alla loro identità profonda, che è quella di comunicare, di essere uno strumento capace di stabilire relazioni, di sollecitare confronti costruttivi, legami profondi, partecipazione attiva.

     Otto i corsi di scrittura che promossi dall'Associazione Partecipalermo ho finora organizzato per la città, a partire dal 14 ottobre 2014. Prima di cominciare l’esperienza, gli iscritti non si conoscevano tra loro, diversi per età, cultura, percorsi di vita. Attraverso gli incontri settimanali, ma non solo (ci siamo infatti serviti di gruppi facebook per continuare a condividere le nostre scritture e letture oltre i laboratori, necessariamente a termine), i partecipanti hanno fatto gruppo, si sono ritrovati nella comune passione per la scrittura, hanno condiviso le loro personali esperienze di lettura e sono nate nuove relazioni tra le persone, quattro libri, tanti pomeriggi insieme e il desiderio di proseguire.
  Certo, pensare a dei palermitani che sono contenti di sentirsi correggere e che chiedono ai “compagni di scrittura” un consiglio o addirittura un giudizio, è alquanto bizzarro… “Ti piace? cosa aggiusteresti? ma quel che ho scritto è chiaro? così va meglio?”
   Lasciare che altri ti leggano è insieme rischio e ricchezza; devi silenziare il tuo punto di vista ed imparare ad ascoltare l’altro, tenere in considerazione un parere differente dal tuo, perché l’altro ci conduce oltre noi, ci sospinge in uno spazio-mondo più ampio e si esce così dal proprio sterile stagno, si apre il recinto del proprio “orticello”…

    Durante questi laboratori, l’obiettivo formale non si è imposto come unico, ma si è cercato di coniugarlo con un meccanismo di superamento dell’io solipsistico, che è già un fattore di crescita umana e sociale, capace di dilatare la personale dimensione partecipativa, presente in ciascuno, ma inaridita, soffocata da molte paure e troppe delusioni. 
     Probabilmente, da solo, nessuno di noi avrebbe pubblicato nulla e le sue parole sarebbero rimaste mute. Con il percorso di “scrittura partecipata” oltre alla cura del proprio linguaggio, all'attenzione consapevole al ruolo delle parole per intessere relazioni e operarare nel contesto in cui ciascuno vive, si è parimenti sviluppato un accresciuto interesse per la conoscenza della nostra bella Palermo, perché sia sempre più somigliante a quello che pare sia stato il suo originario nome fenicio “ZYZ” = Fiore. Mi piace notare il tratto palindromico del termine, che pure “al contrario” sempre zyz rimane!

   La "scrittura partecipata", così come l'ho proposta nei gruppi e verificando i risultati è un'ulteriore conferma che ogni ambito può e dovrebbe essere sempre dilatato verso un “oltre”: la letteratura, nella sua duplice dimensione di lettura e di scrittura può aiutarci ad essere più umani, più sorridenti e a rendere più bella la nostra città.
   «À quoi donc peut servir la littérature, si elle n'aide pas à vivre?» (Jean Sulivan)

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 Mercoledì 30 marzo, ho iniziato il nono per-corso di scrittura, ho varcato la soglia della Biblioteca, con timore e tremore, con entusiasmo e passione, pronta a rischiare e a sperimentare una nuova avventura. Timore, fatica, stupore, mistero... come per un parto.
   È stata, ancora una volta, la prima volta!







08 gennaio 2019

SERMONE DELL'AGNOSTICO

 


 


sermone dell’agnostico

 

Quanti predicatori chiacchieroni, quanti ripetitori del niente

Immaginiamo che, per assurdo, nel giorno della festa di santa Teresa di Lisieux, uno di questi insopportabili chiacchieroni, al suo posto faccia salire sul pulpito un non credente, di media intelligenza.

 °   °   °

Devoti e devote, io non condivido la vostra fede, ma la storia della Chiesa, della vostra Chiesa, è forse più familiare a me che a voi. Io l’ho letta, ma mi pare che non ci siano molti parrocchiani che potrebbero dire altrettanto. Mi sbaglio? Gli interessati alzino la mano!

 Fedeli, è bello che voi lodiate i vostri santi. È giusto che voi vi rallegriate per loro.
Ma scusatemi! Non posso credere che essi abbiano tanto sofferto e combattuto solo per permettervi di fare delle belle feste. E feste, peraltro, che restano solo vostre, giacché migliaia di poveri diavoli non hanno mai sentito parlare di questi eroi. E chi non conosce i santi, permettetemi, non può proprio contare su di voi!
      Noi, i non credenti, non conosciamo i santi, ma, scusatemi, mi sembra che neppure voi li conosciate in modo serio. Chi di voi sarebbe capace di scrivere venti righe sul suo Santo protettore?

 Prima restavo davvero perplesso. Adesso purtroppo ho capito che voi non vi preoccupate di quel che pensa la gente della mia specie. Anche i più devoti fra voi evitano ogni discussione con noi che non crediamo, dicono, per timore di perdere la fede.
       Ma scusatemi, che razza di fede è questa? Questi mediocri per noi sono infelici perché ipocriti. E questo ci procura tanta tristezza. Ed ecco una grande differenza tra noi e voi: voi non vi interessate dei non credenti, ma i non credenti s’interessano enormemente a voi.
Già noi ci interessiamo a voi, ma rimaniamo proprio delusi!
Vi studiamo, vi scrutiamo e che scopriamo? Molti fra voi agiscono per interesse; altri vivono una fede che non cambia nulla nella loro vita.

Non c’è nulla di più grottesco che vedervi parlare, come tutti, delle vicende di questo mondo. E la vostra morale poi non differisce molto da quella comune.
Che mediocrità. E dove sta l’eroismo? Léon Bloy affermava giustamente che un cristiano, se non è un eroe non è che un porco.

 Devoti e devote, devo confessarvi che il vostro vocabolario ci fa sognare.
Per esempio, quel termine misterioso: stato di grazia.
Quando uscite dal confessionale siete in “stato di grazia”. Stato di grazia. E che vi devo dire? Non si vede proprio. Noi continuiamo a chiederci: «Ma che ne fate della grazia di Dio? Ma dove diavolo la nascondete la vostra gioia?»

 Sì è vero, noi, come gli uomini del Vecchio Testamento, abbiamo il nostro vitello, noi sogniamo un Messia carnale che si chiama Progresso, Scienza. Potete dire quello che volete, ma non potete affermare che siamo stati noi ad aver crocifisso il Salvatore.

Il deicidio non è un crimine come gli altri ed esso è stato commesso proprio dalla classe dei sacerdoti più in vista, con l’approvazione dell’alta borghesia e degli intellettuali del tempo. Potete sghignazzare quanto vi pare, ma non sono stati i comunisti né gli infedeli che hanno messo il Signore in croce.
E com’è che non vi stupite che il Buon Dio abbia riservato le sue più dure maledizioni a dei personaggi importanti, inappuntabili nei loro doveri, attentissimi osservatori del digiuno e ben istruiti nella religione? Questa enormità non vi meraviglia?

 Voi siete il sale della terra. E allora, se il mondo perde sapore, ma con chi volete che me la prenda? È davvero inutile che vi vantiate dei meriti dei vostri santi, giacché voi non siete che gli intendenti di questi beni.

 Cristiani, siete voi che la liturgia della Messa dichiara partecipi della divinità, siete voi, uomini divini: dopo l’Ascensione del Cristo, siete quaggiù la sua persona visibile. Abbiate la coscienza di ammettere che non siete sempre riconoscibili al primo colpo.

 Voi trovate queste mie osservazioni certamente fuori posto. Può darsi, ma hanno almeno il merito di essere semplici.

E certo la nostra amica Teresa non si dispiacerà.
Ahimè! Non avete molto da temere da me. Temete piuttosto quelli che vi giudicheranno, temete i fanciulli innocenti. La sola decisione che vi resta da prendere è quella che vi propone la santa: ritornate fanciulli, ritrovate lo spirito d’infanzia!

 La società in cui vivete sembra più complessa delle altre perché eccelle nel complicare i problemi, o almeno nel presentarli in cento maniere diverse, il che le permette di inventare di volta in volta soluzioni provvisorie, che, naturalmente, vengono presentate come definitive.
Quanti sforzi per arrivare ad una società che si pretende materialista e che non è più in grado né di produrre né di vendere!

 Cristiani che siete in ascolto, sta qui il pericolo!
È davvero rischioso subentrare ad una società che si è inabissata in un uragano di risate, perché anche i frantumi saranno inutilizzabili. Voi dovrete ricostruire. E dovrete ricostruire tutto davanti ai fanciulli. Ritornate dunque bambini. essi hanno trovato il modo di armarsi e voi disarmerete la loro ironia solo a forza di semplicità, di lealtà, di audacia. Voi li disarmerete solo a forza di eroismo.

 Parlando così credo di non tradire il pensiero di santa Teresa di Lisieux. Mi limito a interpretarlo. Cerco di utilizzarlo in termini umani, di applicarlo alle vicende di questo mondo. Lei ha predicato lo spirito d’infanzia.
I santi si rivolgono a voi, vi hanno indicato una strada. Ma quanti li seguono?

Molti fra voi cristiani somigliate a quei leggendari soldati italiani che aspettavano l’ora dell’assalto. All’improvviso il colonnello sguaina la sciabola, scavalca il parapetto, si mette a correre da solo in mezzo al fuoco di sbarramento gridando: «Avanti! Avanti! Avanti!», mentre i suoi soldati, sempre rannicchiati nel fondo della trincea, elettrizzati da tanto coraggio, battono energicamente le mani, con le lacrime agli occhi: «Bravo! Bravo! Bravo!» E restano dove sono! E come sono…

 Il messaggio di santa Teresa rivela un carattere tragicamente urgente. Vi viene offerta un’ultima possibilità: “Siete capaci di ringiovanire il mondo, sì o no? Il Vangelo è sempre giovane, siete voi che siete vecchi!”

 Voi la vostra fede non l’avete vissuta e allora essa è diventata astratta, è come disincarnata. Forse è in questa disincarnazione del Verbo la sorgente delle nostre disgrazie.
Molti fra voi si servono delle verità del Vangelo come di un tema iniziale, da cui traggono una sorta di orchestrazione ispirata dalla logica di questo mondo. Nella pretesa di giustificare le verità evangeliche dinanzi ai Politici, non vi viene il timore di renderle inaccessibili ai Semplici?

Giovanna d’Arco non era che una santa, eppure si è messa in tasca i dottori dell’università di Parigi.
       E se lasciaste la parola al Bambino Gesù?
     Quando i potenti di questo mondo vi pongono domande insidiose su un mucchio di complicatissimi problemi: e la guerra, e il rispetto dei trattati e l’organizzazione capitalista, etc. etc. non vi vergognate di confessare che siete troppo stupidi per rispondere, e che il Vangelo risponderà al posto vostro. Allora forse la Parola divina compirà il miracolo di riunire tutti gli uomini di buona volontà.

Certo, è paradossale per noi sperare nel miracolo. Ma, consentite, non è ancora più paradossale aspettarcelo da voi?

Devoti e devote, mi spiace di non potervi benedire, essendo non credente. Ma ho comunque l’onore di salutarvi. Io non pretendo di interpretare il Vangelo, ma supplico voi cristiani di viverlo pienamente, secondo la vostra fede, secondo la fede della vostra Chiesa.
Sì, ve ne prego, vivete il Vangelo!

 °   °   °  

Nota
Il testo riportato è tratto da Les Grands Cimetières sous la lune e da me tradotto.
   

«Ho deciso di scrivere tutto quel che penso sulla storia che vivo per tutti quei piccoli Bernanos sconosciuti che devono esistere da qualche parte, in luoghi diversi, e che non si conoscono. Forse così li rivelerò a se stessi».

                                                                                

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

              (lettera del 3 novembre 1936)