18 agosto 2020

L’albero della speranza e una rosa

Ogni realtà ha una sua storia. Se la conosciamo, quell'oggetto, quell'evento, quella persona acquisisce spessore, risplende di una bellezza che altri non possono scorgere. Così è di questo piccolo albero di nessun pregio estetico, ma la cui storia è talmente intensa da renderlo qualcosa di speciale. Di questa storia ho già scritto nel mio blog, di cui allego il link*, ma oggi la storia si è arricchita di una seconda parte, che voglio condividere oggi, in questo tempo senza tempo… pare sia trascorsa già una settimana dalla nuova “nascita” di Michele.

 °  °  °

Da quando avevo sei anni, trascorro i mesi estivi in una zona ad una ventina di minuti minuti da Palermo. Il luogo, a circa 600 metri di altezza, è chiamato San Martino delle Scale. Sessant’anni fa sembrava un presepio permanente. Dalla conca collinare in cui giace la borgata, andando su per quasi quattro chilometri, si giunge ad un’altezza di circa 800 metri, dove, negli anni ‘50 è stato creato il “Villaggio Montano”. Lì trascorro buona parte dell’estate da oltre sessant’anni.  La bellezza del luogo è tale che, chi come me è legato a questo spazio, continua a scegliere di trascorrervi il periodo estivo nonostante l’assenza totale di servizi. E oltre i disservizi c’è lo scempio annuale a cui siamo costretti ad assistere una o due volte ogni estate. Luglio o agosto, un po’ qui e un po’ lì, qualche brandello di pineta, ancora miracolosamente sopravvissuta, viene ridotta in cenere in pochi minuti. Forme, suoni e colori svaniscono. Si ripete un copione drammatico.

E con singolare violenza, avvenne anche il 17 agosto 1994. Verso le 22, la notte divenne “infuocata“. Il cielo in pochi istanti si trasformò in un’immensa fornace. Il fuoco era stato appiccato in più punti e, a causa delle raffiche di vento, era impossibile controllare le fiamme. Terrore e rabbia soffiavano più violenti dello scirocco. Qualcuno pregava.

Questo lo scenario su cui prende forma “la storia dell’albero”. 

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L’anno seguente all’incendio descritto, un pomeriggio, mio figlio Francesco mi dice: «Mamma, guarda sopra la montagna». Di fronte casa mia si stende armoniosamente una stupenda collina, nella mia infanzia favoloso mare verde ondeggiato dal vento, di cui oggi non rimane che il riverbero nella mia sbrindellata memoria. Nessuna traccia di quel che fu un bosco, all’infuori dei sentieri che prima s’inoltravano tra funghi e ciclamini, adesso solo pietraia luccicante al sole. Anche quella montagna è stata denudata e rudemente violentata. Neppure un albero sulla collina che, in passato, era stata una delle più lussureggianti pinete del Villaggio. Sassi e pietre nel mio sguardo.

 ‒ Mamma, guarda sopra la montagna, sulla cima. Non vedi niente?
In effetti non scorgevo che un’esile sagoma simile a un paletto da recinzione, che non avevo mai notato.
          ‒ Perché, Francesco, cosa c’è?

Secondo il suo stile essenziale, mio figlio sintetizza: «Sono salito con Roberto e Gabriele, la carriola, la terra, la zappa e un cipressino nato in zona. L’abbiamo trapiantato là».

 Sulla cresta di quella collina, schiaffeggiato dal vento, l’albero-paletto appariva inerme e poco fortunato. Sarebbe potuto crescere altrove, sprofondando le radici nella terra, rinforzando ed allungando il suo tronco, regalando al sole rami e gemme. Ma non sarebbe stato che un albero fra gli alberi.
       Lì, sulla cima, quel piccolo cipresso è diventato per molti un segno di rinascita. Una voglia e un’urgenza visibile di affermare che la vita è più forte di ogni violenza e che vale la pena tentare, resistere, fare delle “follie”, anche quando tutti ti dicono che “tanto non serve a niente”.
       Gli incendi continuano infatti a cadenzare le nostre estati, ma quell’albero è lì. Ha segnato un percorso. Amici che d’estate vanno e vengono da casa nostra sono saliti sulla montagna per portare il loro contributo d’acqua. Ognuno con la sua bottiglia o bidoncino colmo fino all’orlo e la gioia di collaborare per far crescere la pianta: “Voglio salire anch’io”. Giovani e anziani in montagna, lungo un sentiero abbastanza semplice all’inizio, ma che poi si conclude ai piedi di una pietraia. All’inizio della scalata finale non è più visibile e ci si continua ad arrampicare solo nella certezza che l’alberello è lì.

Certo non cresce rigoglioso l’albero e non lo sarà mai data la postazione, ma il suo compito non è di fare ombra ma di elevare, nel centro del cielo, una parola di speranza, sfida alla dilaniante potenza del male, sussurro lieve di una energia vitale mai del tutto eliminata, nota di tenerezza in un contesto violento. Lì, sulla cima. Traccia da sventolare dall’alto. Allora come oggi.

  °   °   °

Nei giorni scorsi, il nostro albero ha ricevuto nuova linfa. Un'altra storia si è intrecciata con la precedente e una rosa carezza adesso le radici del piccolo cipresso.
     Alle 7 del mattino di mercoledì 12, giorno del funerale di Michele, vedo Francesco, Gabriele e Laura con le scarpe da tennis. Li interrogo con lo sguardo.
      ‒ Mamma, saliamo all'albero...

Mi commuovo nel profondo. Una sublime preghiera sta per essere celebrata sulla vetta della nostra montagna.
     Il giorno prima, dal balcone della sua stanza aperto verso il cielo, Michele, con gli occhi dell'anima, poteva guardare la vetta di fronte a lui e scorgere l'alberello.
      ‒ Franci, porta su una rosa...

Inizia la salita. Con Francesco, Gabriele e Laura, col cuore saliamo tutti: le nostre famiglie Bertolino, La Barbera, Bettonica, Cusimano, i tanti amici... per piantare in alto, ancora una volta, la parola della speranza. 

Ora l'albero non è più solo. Insieme con la rosa, carezza il cielo. 

 

* Il link del testo completo, elaborato nel 1998, da cui ho tratto alcuni stralci.
https://mariantoniettalb.blogspot.com/2018/08/lalbero-della-speranza.html

 



 

22 maggio 2020

L’Albero di via Notarbartolo 23


Che gran paternità quella degli alberi, che sanno dare
a ciascuno dei loro rami un cammino verso la luce.
 Lorenzo Olivan






‒ Tremai.
Un terrificante boato scoppiò, ma molto lontano da me. Eppure ne avvertii l’esplosione, come se i palazzi d’intorno fossero stati bombardati, ma nessuna montagna… nessuna autostrada… nessuno scoppio. Solo un silenzio sconfinato sulla città. Io al solito posto. Le mie radici sul marciapiede, i miei rami sulla facciata del palazzo. Eppure tremai.
Fu silenzio. Fu deserto. Fu inferno. Io tremai e piansi. So bene che gli alberi non piangono e neppure i comici o i cantanti, ma qui accadde e continua ad accadere.

Palermo è bella non solo per il mare e il cielo, per il cibo e i colori, per i suoi artisti e i suoi monumenti. Palermo è bella anche per i suoi alberi. Quanti miei fratelli nati e cresciuti negli spazi di questa sorprendente città! Ci sono alberi così monumentali da essere inseriti nelle guide turistiche, come quelli dell’Orto Botanico, il cipresso di santa Maria di Gesù, alto circa 23 metri e lo spettacolare Ficus di piazza Marina, il più grande albero d’Europa.
Io invece ignorato, in questa via Notarbatolo 23, attraversata quotidianamente da migliaia di macchine rumorose e da passanti distratti. Forse nessuno si era mai fermato a guardarmi, ma ci sono giorni che cambiano la vita degli uomini, come anche degli alberi.
Da allora, sembra che nulla sia mutato. Io sono sempre qui, al numero 23; le radici nel cemento, le mie fronde sui balconi, ma da quel giorno nulla è più come prima.

Dopo poche ore da quel tragico boato un numero di persone sempre crescente iniziò a raccogliersi davanti a me. Avvertivo forti sentimenti di rabbia e di sgomento, ma anche la vigorosa voglia di non arrendersi. Senza che nessuno lo decidesse, in modo spontaneo divenni “un luogo di memoria”, “un altare laico”, un vigoroso richiamo alla legalità.
Visite, biglietti, fiori, striscioni; sono una sorta di reliquario laico, a cui cittadini indignati e/o speranzosi continuano ad affidare parole e attese. Forse questi gesti che ad alcuni potrebbero apparire fanatici o insignificanti generano energia positiva che, purtroppo, non a tutti è gradita. Certo è che un giorno mi spogliarono, lasciando il mio tronco nudo. Portarono via foto e messaggi, fiori e parole di riconoscenza, Un gesto squallido, un furto ignobile, un’azione esecrabile, ma la reazione dei palermitani fu immediata e subito fui nuovamente rivestito di segni di solidarietà.

Dinanzi a me – ormai da ventisei anni –  ogni 23 maggio si compie un rito, una celebrazione della speranza.
Da punti diversi – e non solo della città ma dell’Italia tutta –  mi raggiungono festosi cortei di ragazzi, canti, striscioni colorati e lenzuoli bianchi. Giungono ad un orario ben preciso, si radunano dinanzi a me, perché per tutti coloro che aprono l’orecchio del cuore, dopo le parole, le testimonianze e i canti, alle 17:58, ancora una volta la tromba della Polizia di Stato suonerà il Silenzio per sovrastare quell’antico boato e suggerire note di futuro nei cuori raggrinziti.
E nel silenzio solenne ciascuno potrà ascoltare la parola che si genera dalla morte dei Giusti.
Una Parola capace di cambiare le cose, di ri-creare il mondo e di renderlo più umano.

Scoppierà come ogni anno un boato di applausi. Mi abbracceranno associazioni, gruppi, rappresentanti delle istituzioni, famiglie, e tanti bambini, a cui i genitori racconteranno la “storia”. Sì, perché il 23 maggio è Storia. E la storia deve essere raccontata per rimanere viva e feconda, per non essere dimenticata.

È vero che dopo tanti anni, molto poco si sa della verità dei fatti accaduti. Forse per questo taluni affermano che queste manifestazioni annuali siano inutili. È indubbio che i “riti” rischiano di essere mummificati dall’abitudine, le manifestazioni pubbliche possono certo trasformarsi in passerelle, in spazi di protagonismo, ma è altresì vero che ciò dipende dalle persone. Il rito, nella sua cadenzata ripetitività, è essenziale nella vita di ogni persona. Abbiamo bisogno delle ricorrenze per custodire la memoria, per rinnovarla nella nostra vita personale e sociale. Per dar senso a ciò che ha avuto Senso.

Non va mai dimenticato inoltre che la storia ha due volti, come ogni realtà autenticamente umana: ciò che si mostra e che è tangibile e un altro volto, quello sotterraneo. L’umanità attraversa terreni carsici e c’è una dimensione invisibile ma operativa che scava giù, nel profondo delle coscienze, nella memoria del cuore. E, in modo più o meno consapevole, siamo comunque tutti dei «nani che camminiamo sulle spalle di giganti», sulle spalle e sulle orme di chi, con la propria vita vissuta in pienezza, ha scavato profetici percorsi di autentica rinascita.
 Ed è la “memoria” che ogni anno viene raccontata qui il 23 maggio, perché non rimanga solo… memoria.  Io, sempre apparentemente immutato e immobile, con le mie radici e le mie fronde unisco la terra all’azzurro, il passato al futuro. Sono segno di unione e condivisione.
I palloncini tricolore, che alla fine della manifestazione volano alti nel cielo blu della città, divengono icona della “Palermo chiama Italia” e dell’Italia che risponde a Palermo nel segno di quella nave che porta migliaia di ragazzi da ogni parte della penisola, corpo di un’umanità che non vuole rassegnarsi e che non vuole lasciarsi violentare da barbari e prevaricatori.
Io sono certo di aver visto dinanzi a me tanti occhi e tanti cuori palpitare e risvegliarsi. Ho visto ragazzi – oggi adulti – fare delle scelte di impegno civile, decidere di vivere in modo responsabile il loro essere cittadini, imboccare percorsi non facili per il bene di questa Palermo. Giovani che hanno scelto di non andar via dalla città, ma di prendersene cura… Adulti che, abbandonando indifferenza e disincanto, hanno deciso di impegnarsi per il bene comune.
Io, Albero-Giardiniere mi faccio custode dei loro semi di speranza, dei loro sogni, dei loro progetti.
Io, icona della Palermo che vuole cambiare. 

Con i miei “vestiti” pregni di fedeltà, attendo ogni anno questo incontro, ma finora l’ho atteso da solo.
A “fare memoria”, adesso ci sarà anche la mia fedele compagna, finora del tutto trascurata. La garitta posta dinanzi alla casa del giudice Falcone, finalmente restaurata, sarà anch’essa un’icona per custodire la memoria e offrirsi come spazio per la creatività dei ragazzi palermitani.

Qui dinanzi a me sono passati politici e artisti, rappresentanti delle Istituzioni, persone umili e personaggi famosi, ma io non sto qui a giudicare se sono stellati o di bassa lega, cristiani falsi o democratici dittatori… Le discriminazioni, in ogni ambito, non sono mai utili. I giudizi categorici sempre presuntuosi e pericolosi. Io sono custode di tutti. Giardiniere, custode, padre di tutti e per tutti è il mio messaggio:

– No alla mafia! No alle mafie! No a qualsiasi forma di violenza e d’ingiustizia!
Sì alla libertà di voler collaborare per la rigenerazione di un popolo di persone libere.
Occorre uno spazio, un luogo, una “patria”, dove ciascuno possa ritrovare la sua bellezza e crescere nel coraggio e nel desiderio della partecipazione, mettendo insieme i talenti di tutti, per costruire un’autentica e responsabile comunità civile.

Domani il calendario segnerà 24 e, forse per molti, tutto sarà come prima, ma sono certo che, anche quest’anno, dinanzi a me si sono realizzate connessioni significative e comunque a tutti è stata regalata l’esperienza che “essere insieme” è fondamentale per andare avanti, per resistere, per rinascere. Per ripartire. In quella “folla di speranza”, forse distratta, forse in parte inconsapevole, comunque è stato piantato un seme.
E, in fondo, cos’è un albero se non l’esplosione di un seme che si fa ramo, foglia, fiore, frutto, che diviene rifugio, dona bellezza e non si stanca di spargere semi?

                            «Bisogna guardarlo a lungo un albero
                                   perché nasca in noi a quel modo».      

                                            *Antoine de Saint-Exupéry


Io, Ficus magnolioide, dalla mia nascita, come tutti gli alberi alla ricerca della luce e attento solo ai miei rami. Da ventisei anni attento e desideroso di far passare la luce su questa città, perché sia di nuovo Felicissima.


*
Testo pubblicato nel volume PalermoParla
, una rassegna di scritture promossa dall'associazione Partecipalermo, in occasione di Palermo Capitale della Cultura 2018 e Manifesta12.


06 aprile 2020

BRICIOLE RICOMPOSTE - qualche spunto su Eugène Ionesco


Briciole ricomposte[1]

Il 28 marzo 1994, Eugène Ionesco ha concluso la sua esistenza terrena, mentre, battendo ogni record, veniva messa in scena la 11.943a replica dello Spectacle Ionesco, ossia la rappresentazione de La Cantatrice chauve e de La leçon, spettacolo che viene riproposto ogni sera ininterrottamente dal 16 febbraio 1957, al teatro parigino della Huchette.
Gli articoli giornalistici pubblicati per fare memoria del “re” dell’assurdo possono considerarsi, per la maggior parte, come una irrecusabile conferma di quel che Ionesco affermava a proposito della critica letteraria: «dialogo fra sordi». Cliché, definizioni trite, affermazioni troppo scontate. E parole, parole, parole...
Per chi ha ascoltato, nell’opera di Eugène Ionesco, parole di vita, è forte l’urgenza di rivisitare tutta la sua produzione, per ritrovare quel centro in cui si è originato il suo universo drammatico, messo in scena in ogni parte del mondo, ma troppo spesso letto, visto, applaudito o criticato con biasimevole superficialità.
Ritrovare tale centro non è certo agevole e sono diverse le motivazioni:
a) le tematiche proposte nella sua produzione sono numerose;
b) Ionesco rivoluziona la situazione del teatro francese;
c) in lui coesistono un abile comico, esperto nei giochi del linguaggio e nella derisione; un poeta e un metafisico, scrittore del sogno e dell’angoscia.

Due stati di coscienza fondamentali sono all’origine di tutte le mie opere: predomina talvolta l’uno, talvolta l’altro, talvolta essi si mescolano. Queste due prese di coscienza originarie sono quelle dell’evanescenza e della pesantezza; del vuoto e della troppa presenza; dell’irreale trasparenza del mondo e della sua opacità; della luce e delle tenebre spesse. Ciascuno di noi ha potuto sentire, in certi momenti, che il mondo ha una sostanza di sogno, che i muri non hanno più spessore, che ci sembra di vedere attraverso tutto, in un universo senza spazio, fatto unicamente di chiarezze e di colori; tutta l’esistenza, tutta la storia del mondo, in quel momento, diviene inutile, insensata, impossibile. Quando non si riesce a superare questa prima tappa di disorientamento (si ha infatti l’impressione di risvegliarsi in un mondo sconosciuto) la sensazione dell’evanescenza vi procura un’angoscia, una specie di vertigine: la leggerezza si trasforma in pesantezza; la trasparenza in spessore; il mondo pesa, l’universo mi schiaccia. Un muro invalicabile si frappone tra me e il mondo, tra me e me stesso, la materia riempie tutto, occupa ogni spazio, annulla ogni libertà sotto il suo peso, l’orizzonte si rimpicciolisce, il mondo diviene una prigione soffocante.[2]

Ionesco non fu soltanto un uomo di teatro. Come afferma Yves Moraud, egli fu piuttosto «uomo-teatro» o meglio «teatro-uomo». Basti pensare ai titoli delle sue opere non teatrali: Notes et contre-notes, Journal en miettes, Présent passé Passé présent, Antidotes per intravedere una personalità dalle molte sfaccettature che, dopo aver affermato qualcosa, avverte il bisogno o la tentazione di pensare e affermare il contrario.
Il drammaturgo si presenta come una “scena” sempre in scena nella quale, in ogni momento, si contrastano, in un dialogo a più voci, i suoi “io” più contraddittori: infanzia e luce da una parte e, dall’altra, l’esperienza dell’uomo ossessionato dall’idea della morte; l’urgenza della leggerezza e l’ossessione dell’opacità; il volo e la caduta; l’amore e lo sterile isolamento.
Ionesco: un personaggio costantemente alla ricerca di sé, della sua parte.
La sua essenza più profonda è teatrale: non riesce a comunicare se non attraverso questo gioco teatrale, in cui ricerca la sua identità smarrita, a causa delle sofferenze della sua vita e delle contraddizioni insite nella sua personalità.

In letteratura non si tratta di esporre delle verità teoriche, delle idee, come nei discorsi, ma di rappresentarle nel gesto e nell’immagine, come delle evidenze viventi, delle sensazioni.
Io non racconto le cose, le faccio apparire; non le discuto, infatti la discussione attenua i fatti, li spiega in modo falso, ci aiuta a dimenticarli; questi fatti io li presento materialmente, nella loro nudità.[3]

Conosciuto per la sua opera teatrale, elaborata in modo intenso, a partire dal 1950, per poco più di quindici anni, Ionesco è anche autore di parecchie raccolte di novelle, molte delle quali contengono l’intuizione originaria di alcune fra le sue pièces più famose.
Ha inoltre pubblicato una raccolta di poesie, un romanzo, numerosi articoli di critica letteraria, libretti per opere liriche, sceneggiature cinematografiche, saggi e diari che, oltre a farci conoscere il suo mondo interiore, sono una prova inconfutabile dell’intensa attività di scrittura sperimentata come una confessione-dono.
Non va infine dimenticata la predilezione di Ionesco per il linguaggio dei colori e delle forme. Alla pittura, che lo ha sempre attratto, ha infatti dedicato gli ultimi anni della sua vita, realizzando un diverso tipo di scrittura, in cui ha vissuto il linguaggio delle linee, e ancor più quello dei colori, come l’ultimo possibile spazio di comunicazione.

I colori sono ancora viventi, mentre per me le parole hanno perduto senso, valore, qualsiasi espressione. I colori sono di questo mondo; essi cantano, sono di questo mondo e mi sembra che mi colleghino all’Altro Mondo. Io ritrovo in essi ciò che la parola ha perduto. Il colore è parola, linguaggio, comunicazione, vita, tutto ciò che può riallacciarmi a Lui, ciò che mi permette di vivere.[4]

Quale che sia la forma di scrittura praticata, il linguaggio ioneschiano rivela sempre il travagliato percorso esistenziale dello scrittore, e rende il lettore partecipe di quell’incessante andirivieni fra spazi tenebrosi ed interstizi di luce, tra «nero e bianco»[5]: ossessioni e paure si intessono incessantemente con certezze e desideri, e la coscienza del presente, dell’istante risvegliato, del briciolo d’esistenza vissuto nell’oggi, quasi sempre finisce col dissolversi nella consapevolezza dell’atrocità universale. E come soffio vitale, lo stupore: «Che cos’è tutto questo?»
 Tale profondo senso di «meraviglia» talvolta dà consistenza all’intima lacerazione e si apre dunque ad un’esperienza di caduta, di tragica pesantezza, di incontrollabile paura di ritrovarsi disperso nel caos; altre volte, dallo stupore si genera l’esperienza della leggerezza, del trionfo della luce, della gioia di esistere.
Come il tempo, nell’opera ioneschiana non è più punto di riferimento, così anche lo spazio è «caricato d’angoscia, poiché‚ è labirintico».[6]
Tutti i suoi testi rivelano un uomo che ha smarrito le sue coordinate e che si sente disperso dinanzi alla tragedia del mondo, ma che continua a cercare, ad attendere la «Manifestazione»; un uomo che si sforza di superare un’angoscia profonda e permanente, alimentata dalla sua riflessione, talvolta ossessiva, sulla vita e sulla morte.
La scrittura viene così vissuta come una possibilità di trovare, o quantomeno di invocare, risposte a drammatici interrogativi, per trarsi fuori dall’angoscia, per vedere più chiaro fra le tenebre, le ossessioni, i dubbi, le paure.
Spesso l’infanzia e il sogno riempiono il presente, mentre passato e futuro si confondono: è una storia che si va delineando fuori della Storia, ma dentro un’interiorità.
Scrittura autobiografica e scrittura teatrale nascono pertanto da un unico dinamismo interiore, di cui il «sogno» è una delle dimensioni più caratteristiche per la sua creatività, in quanto rende il reale più “reale”.
E se della scrittura autobiografica quasi nulla è stato detto, forse troppo si è scritto a proposito della produzione teatrale. Teatro dell’assurdo, teatro dell’incomunicabilità, teatro dell’esilio è stato definito quello di Ionesco.
L’etichetta «teatro dell’assurdo», con cui è stata catalogata la sua produzione drammatica, ha trovato origine nel titolo di una monografia del critico inglese Martin Esslin[7], dedicata al teatro degli anni Cinquanta, ma tale definizione non è mai stata condivisa da Ionesco: «Io assurdo? Che assurdità!»
Concordando con tale rifiuto, ritengo certamente più fedele al percorso del drammaturgo, il titolo del saggio di Saint Tobi: «Eugène Ionesco ou A la recherche du paradis perdu».[8]

Una delle ragioni principali per le quali scrivo è per ritrovare il meraviglioso della mia infanzia al di là del quotidiano, la gioia al di là del dramma, la freschezza al di là della grossolanità.
Tutti i miei libri, tutte le mie opere teatrali sono una chiamata, l’espressione di una nostalgia, io cerco un tesoro inabissato nell’oceano, perduto nella tragedia della storia. È per ritrovare la bellezza originaria, intatta in mezzo al fango, che io non solo faccio letteratura, ma me ne sono nutrito. È la luce che io cerco e mi sembra di ritrovarla  di tanto in tanto. Sempre alla ricerca di questa luce certa oltre le tenebre.[9]

In effetti io sono alla ricerca di un mondo ritornato vergine, della luce paradisiaca dell’infanzia, della gloria del primo giorno, gloria non offuscata, universo intatto che deve apparirmi come se stesse per nascere. È come se io volessi assistere all’avvenimento della creazione del mondo prima della decadenza e tale avvenimento lo cerco attraverso me stesso, come se volessi risalire il corso della Storia, o attraverso i miei personaggi che sono altri me stesso, o che sono come tutti coloro che mi somigliano alla ricerca consapevole o no della luce assoluta.[10]

In tutta l’opera di Ionesco infatti è sempre presente, anche se in modo più o meno immediatamente percepibile, «la ricerca di una realtà essenziale dimenticata, taciuta», fuori della quale Ionesco sa di non poter vivere.
L’attesa della luce, la «sete e la fame»[11] dell’Assoluto sono delle costanti di tutta l’opera ioneschiana e si possono considerare il dinamismo che anima la sua scrittura:

Io aspetto che la bellezza venga un giorno ad illuminarmi, a rendere trasparenti i sordidi muri della mia prigione quotidiana.[12]

Tutta l’opera è attraversata da un ossessivo interrogarsi sul mondo, sull’inammissibilità dell’esistenza, attraverso procedimenti logici e analisi introspettive talvolta soffocanti.
Una parola-chiave del suo universo è certamente “interrogazione”, da Yves Moraud indicata come il segno caratteristico del linguaggio dell’esiliato.

Interrogarsi o interrogare il mondo è inizialmente un porsi in una situazione di dualità o di esteriorità in rapporto a sé o in rapporto al mondo, con la volontà di comprendere e stabilire il dialogo.[13]

Interrogarsi, e interrogarsi sul perché ci si interroga, porsi delle domande e insieme affermare che non ci sono risposte-soluzioni alla tragicità della vita: è questo l’intrigo di quell’opera scritta da Ionesco che è la sua vita.
E non va certo dimenticato che Ionesco resterà sempre l’uomo dalle due patrie: saranno sempre due tradizioni culturali ad interagire nella sua esistenza, due lingue.
L’angoscia di cui ha sofferto, la paura della morte, l’insostenibile invadenza della materia che «svuota l’universo di presenza»[14] saturando lo spirito e svuotandolo di ogni dinamismo vitale, l’impotenza dell’uomo ad autosalvarsi sono alcune delle tematiche che riecheggiano nella produzione narrativa, nei saggi, nei diari di Ionesco e che gridano l’attesa della luce, la gioia della leggerezza, della presenza.
Tale esperienza di pienezza emerge talvolta in squarci appena percettibili, ma è per lo più celata da un tragico quotidiano, follemente ritualistico e svuotato di qualsiasi autenticità.
E così il grottesco e il riso feroce evidenziano la vuotaggine di un’esistenza appiattita a banalissimo stereotipo e rivelano incisivamente il carattere distruttivo, mortifero dell’automatismo della ripetizione.
In tale ferialità disumanizzata, l’assenza di tutti i valori e aspirazioni profondamente umani è da leggersi come una forma di urlo metafisico, che afferma l’urgenza irrefrenabile di una vita più  umana, in ogni interstizio di creazione.
E questi stessi dinamismi danno vita a quei personaggi e situazioni messi in scena secondo quelle tecniche teatrali che gli consentono di andare al di là del linguaggio discorsivo e di comunicare allo spettatore, in modo più diretto e coinvolgente, sensazioni, dubbi, angosce, desideri. E le parole vengono vomitate sulla scena, fino alla violenza.

Sono perduto nelle migliaia di parole e di azioni mancate che sono la “mia vita”, che disarticolano, che distruggono la mia anima. Questa vita è tra me e me stesso, la porto tra me e me stesso, non la riconosco come mia e tuttavia è ad essa che domando di essere rivelato. Ma come essere rivelato da ciò che vi nasconde? Come fare perché tutte le maschere divengano trasparenti, come risalire il fiume delle combinazioni, dell’errore, del disorientamento fino alla sorgente pura? Come dare un’espressione a ciò che non si può esprimere?[15]

Si è parlato, a proposito di Ionesco, oltre che di teatro dell’assurdo anche di teatro d’avanguardia, di teatro simbolista, di teatro lirico, di teatro della «derisione».
Il drammaturgo amava piuttosto parlare di «antiteatro» o di teatro totale, ossia di un teatro non politico né sociale o psicologico, ma di un teatro che affrontasse la problematica fondamentale dell’uomo, quella della «condizione umana».

Quel che io volevo fare, no, sarebbe troppo solenne dirlo: fare della metafisica. La storia e la politica cercano vanamente di risolvere o mascherare il problema fondamentale della nostra condizione, infatti non possono rispondere a queste domande: “Che cosa faccio qui? Perché sono qui? Cos’è questo mondo che sta intorno a me?” Queste sono delle domande elementari che la storia ci fa dimenticare, ma che ognuno dovrebbe porsi. Io credo che per me la cosa più importante non sia la condizione economica o sociale, ma la condizione esistenziale: non si deve perdere la coscienza di sé.[16]

Secondo Ionesco, la condizione esistenziale è fortemente rivelata dalle forme del linguaggio e dai modi della comunicazione umana. La disarticolazione del linguaggio in lui pertanto non è mai puro gioco di rottura, ma nasce dal convincimento che una parola consumata, logorata, sia il segno che il pensiero è morto: è la sclerosi spirituale che riduce la parola a cliché, slogan, luogo comune. Secondo Ionesco pertanto il linguaggio logoro, disarticolato, parla di un uomo che si è ridotto ad «essere sociale», dimenticando o smarrendo la sua singolarità, la sua più profonda interiorità.
Cogliere la tragicità di un linguaggio che non è più  veicolo di comunicazione autentica, sprofondare nell’autarchico reticolato di uomini-fantocci che chiacchierano in modo inarrestabile perché non hanno nulla da dirsi o da darsi è, per Ionesco, l’unico percorso che possa ricondurre alla ricomposizione di questo stesso linguaggio e che sia in grado di invocare un processo di umanizzazione di una società ormai per lo più costituita da individualità frantumate nell’intimo e pertanto incapaci di relazionarsi autenticamente.

Una parola da sola può mettervi sulla strada, una seconda parola può turbarvi, la terza vi getta nel panico. A partire dalla quarta, è la confusione assoluta. Il logos era anche l’azione. È divenuto la paralisi.
La parola non rivela più. La parola chiacchiera. La parola è letteraria. La parola è una fuga. La parola impedisce al silenzio di parlare. La parola assorda. La parola consuma il pensiero. Lo svilisce. La garanzia della parola deve essere il silenzio. Ahimè! Che civiltà! È l’inflazione della parola.[17]

Un universo quello ioneschiano dove, spesso con violenza, si respira una sorta di insostenibile malessere, si assiste alla squallida degradazione a cui è giunto l’uomo, al suo incessante sprofondare nella chiacchiera, nel fango, negli oggetti-materia che prolificano in modo incontrollabile. Emblematico è il titolo della sua ultima opera teatrale del 1984: Voyages chez les morts.[18]
Eppure questo mondo di «assenza», questo spazio di morte urla l’urgenza di una Presenza, di una luce, esprime l’incessante ricerca di una vita luminosa. Ed è questa «ondata di luce», di novità, questa purezza e verginità dell’essere che Ionesco, con pesante fatica e lacerante travaglio intimo, si è comunque sforzato di voler riconquistare durante tutta la sua esistenza. È la costante ricerca del «paradiso perduto».
Ionesco assurdo, Ionesco nevrotico o Ionesco contemplativo?
Nessuna risposta credibile che non nasca da una ascolto attento di questa scrittura, così inquietante e così umana. Un invito a leggere Ionesco.

Come una sinfonia, come una costruzione, un’opera di teatro è, molto semplicemente, un monumento, un mondo vivente; è una combinazione di situazioni, di parole, di personaggi; è una costruzione dinamica che ha la sua logica, la sua forma, la sua coerenza proprie. È una costruzione dinamica i cui elementi si equilibrano opponendosi.[19]
Più le opposizioni, le passioni sono complesse e numerose, più è importante, e poiché l’opera è come un organismo vivente, come un essere, è in questo che essa è contemporaneamente invenzione e scoperta, immaginaria e reale, oggettiva e soggettiva, letteratura e verità.[20]



[1]  Il titolo Briciole ricomposte fa riferimento a Journal en miettes del 1967, uno fra i diari più significativi di Ionesco.
[2]  Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallimard, p. 231.
[3]  Ionesco,  Antidotes, Paris, Gallimard, 1977, p. 260.
[4]  Ionesco, La quête intermittente, Paris, Gallimard, 1987, p. 16.
[5] Cfr. Ionesco, Le blanc et le noir, Paris, Gallimard, 1985. Il testo comprende quindici disegni commentati dall’autore ed una sua lunga introduzione.
[6]  Marie-Claude Hubert, Eugène Ionesco, Paris, Seuil, 1990.
[7] Martin  Esslin, Le Théâtre de l’absurde, Buchet-Chastel, 1963.
[8]  Saint Tobi, Eugène Ionesco ou A la recherche du paradis perdu, Paris, Gallimard, 1973.
[9]  Ionesco, Antidotes, cit., 315.
[10]  Ibidem,  p. 316.
[11] La faim et la soif è il titolo di una pièce del 1966.
[12]  Ionesco,  Notes et contre-notes, cit., p. 305.
[13]  Yves Moraud, Ionesco: un théâtre de l’exil et du rituel, in Ionesco, Colloque de Cerisy, Paris, Belfond, 1980, p. 87.
[14]  Ionesco,  Notes et contre-notes, cit., p, 232.
[15]  Ionesco, Présent passé Passé présent, Paris, Gallimard, 1968, p. 248.
[16]  Ionesco, Entre la vie et le rêve, Paris, Belfond, 1977, p. 165.
[17]  Ionesco, Journal en miettes, p. 103.
[18] Nel 1987 scriverà ancora il libretto dell’opera lirica Maximilien Kolbe, il santo francescano la cui storia lo ha sempre fortemente attratto: «La sola esistenza da invidiare, la sola esistenza che merita di essere vissuta, che giustifica la vita così come la morte». (Ionesco, intr. a Ionesco, Colloque de Cerisy, Paris, Belfond, 1980, p. 23).
[19]  Ionesco, Notes et contre-notes, cit., p. 212.
[20]  Ibidem, p. 30.