C’era una volta…
Così si diceva. E si
cominciava una storia.
Tu, bambino, la
ascoltavi, sognavi e imparavi. Tu, adulto, che la raccontavi, scavavi dentro i
tuoi ricordi, esprimevi le tue esperienze, comunicavi la tua esistenza, ne
condividevi qualche frammento con qualcuno.
Ma
se oggi hai ancora tempo e coraggio per rivolgerti a qualcuno, e gli dici: “Ascolta, c’era una volta…”, rischi di apparire un bigotto sottosviluppato.
No, non c’era proprio
niente. Né una volta e neppure due volte. E a che servirebbe dire che c’era
qualcosa o qualcuno? La nostra è la cultura dell’usa e getta, della memoria in
tilt, del reseat. Azzeramento.
Non c’era e non ci
deve essere niente. Solo immagini, immagini accattivanti, provocanti, immagini
che ti saziano e ti svuotano. Immagini seducenti, che si susseguono con ritmo
frenetico per toglierti la capacità di pensare, di riflettere, di comprendere.
Immagini che ti illudono di essere e di avere, di possedere e di progettare.
Ora, qui e subito. Tutto.
Ma in questo tutto,
del tutto illusorio, si radica il nulla esistenziale, la perdita di senso, lo
smarrimento della direzione.
Si vive come dentro
una centrifuga: di continuo lavati da ogni ricordo; smacchiati da ogni sogno o
speranza; ammorbiditi da sorrisi ammalianti e falsi; asciugati e prosciugati
senza pietà da ogni goccia di gioia profonda; stirati a secco, nel senso che
deve essere bandita ogni tenerezza e tu devi essere scientifico, razionale, pragmatico, “con i piedi
per terra”. A secco, arido più della sabbia del deserto.
Ma oggi e domani e poi ancora domani, la centrifuga fa danno. Si rovina la
biancheria, si logora la persona.
Proiettati in una
corsa frenetica verso non si sa quasi più che cosa, le realtà essenziali
sfuggono sempre di più. Perdiamo la memoria. Diciamo: “Tutto okay”, mentre dentro sprofondiamo nella
solitudine più mortale e, prendendo l’abitudine di fingere che tutto va bene,
anzi benissimo, perdiamo di vista la realtà vera, la nostra e quella del mondo
in cui viviamo.
C’era…Che cosa?
C’è…
Chi?
E
io, ci sono?
E
come? e perché?
Il tempo delle favole
è passato, ahimè!
Oggi ai bambini si
devono far vedere immagini violente, si devono raccontare intrecci ingarbugliati e capaci di far rabbrividire, se c’è
ancora un bambino così normale da turbarsi ancora per qualcosa. Gli
stessi cartoon sembrano dei prontuari di orrido a buon mercato.
Agli adulti aridi e
assetati invece si devono fornire torrenti di notizie tali da imburrare il
cervello. News e sempre più nuove news, che non hanno e non potrebbero avere
nulla di nuovo, perché l’immaginazione che si radica su obiettivi materiali
(far soldi, ottenere audience, diventare potenti, fare sesso in modo
trasgressivo, etc.) per quanto sembri scatenata, sconfinata, finisce col riciclare
e riciclarsi.
L’interesse per la storia, la filosofia, la
letteratura, per tutto quello che ha tramandato le esperienze profonde
dell’uomo sembra un passatempo per sfaccendati o pseudointellettuali, che non
sanno adeguarsi a conoscere le radici profonde dei “tempi postmoderni”.
E non è
tanto e solo un problema di scuola o di università che non funzionano. È un
problema di incapacità a sapersi guardare intorno, a saper leggere quel che ci
circonda. A guardarsi dentro e a capire chi siamo e che ci stiamo a fare in
questo mondo. Troppe notizie da apprendere, troppe cose da fare, da
programmare. E ci si dimentica di vivere.
La
storia che segue narra un episodio di nessuna rilevanza, che potrebbe apparire
un fragile supporto a riflessioni e affermazioni impegnative, qua e là inserite
nel racconto, ma ormai da anni non riesco a rimanere nell’ambito angusto del
fatto, modesto o eccezionale poco importa. Anche senza volerlo, collego livelli
diversi, pongo a confronto situazioni che apparentemente sembra che non abbiano
nulla in comune e ritengo che questa sia un’operazione consigliabile perché, in
ogni campo, si rischia sempre più di delimitare esageratamente gli ambiti delle
analisi, di specializzare il sapere, di parcellizzare tutto e tutti, perdendo
di vista l’insieme.
Si tratta di una
storia vera, che ho vissuto come la simpatica avventura di un uccelletto che
rispondeva al mio richiamo, ma che ho anche utilizzato per andare oltre il
fatto, per cercare di leggere e di capire, attraverso i sensi e i segni
concreti, tante sfumature della vita relazionale fra le persone, l’affascinante
scommessa sulla dimensione formativa, l’urgenza di mantenere il contatto con la
natura per meglio saper ascoltare e vedere quel che ci sta intorno, giacché
noi, che crediamo di sapere tutto e di vivere con intelligenza la vita di ogni giorno, abbiamo molto da imparare
da tutti. Anche da un tordo.
Imparare di nuovo a
leggere, questo è necessario, leggere le tracce che ci sono dentro e fuori di
noi. Imparare a scrivere con la nostra esistenza, con le nostre parole e i
nostri silenzi qualche pagina, anche solo qualche riga, nella storia
dell’umanità, perché qualcuno un giorno, ricordandosi di noi, possa dire: C’era una volta…
* * *
C’era una
volta un tordo
Già, può capitare di tutto quando non ti chiudi nel tuo io e ascolti e vedi ciò che ti circonda.
Cominciamo
dall’inizio. Cos’è un tordo? Di solito, la parola ti fa pensare a qualcuno non
troppo intelligente, un quasi imbecille, insomma un tordo. Ma c’è anche il turdus
iliacus, il turdus
viscivorus, etc. Tordi uccelli, tordi
pesci.
¢ Che
stupidi! Crediamo di sapere tutto e non sappiamo neanche cosa sia un tordo.
* * *
Era un giorno qualunque di
un’estate qualsiasi. O meglio era l'estate 2002, ma non importa
molto, giacché per gli avvenimenti importanti nessuno sa mai che anno è.
¢ Tutto può proseguire
come sempre nell’abitudine, fra le solite cose, i volti mascherati, le parole
bla bla, a meno che… A
meno che non si realizzi un incontro, a meno che qualcuno non riconosca la tua
voce e tu cominci a chiamare l’altro per nome.
Dovete
sapere che nel gazebo, dove in estate studio e scrivo, tenevo da due anni
appesa la fotografia di un amico che ha concluso la sua avventura terrena. Ero
molto indecisa se lasciare quella foto, che aveva talvolta causato un certo
disagio per gli ospiti, sempre molto frequenti a casa mia, i quali non avevano
conosciuto il mio amico. E così, un po’ perplessa, mi ero comunque decisa a
toglier via la fotografia. Come sostituirla? Tra le numerose immagini che mi
ritrovavo, eccone una con delle mani che teneramente stringevano un piccolo
uccellino. Nessun dubbio. Quella foto avrebbe sostituito il volto del mio
amico, ma avrebbe continuato a ricordarmelo in modo ancora più intenso.
E
ancora non sapevo quel che sarebbe successo.
Due
giorni dopo la sostituzione della foto, giunse come ogni sabato, la persona che
mi aiuta nei lavori domestici, e mi accorsi che teneva qualcosa nel pugno, con
molta attenzione e un certo timore.
“L’ho trovato per strada. Sarà caduto
dal nido”. Aprì la mano: qualche piuma, due zampette e un becco. Era proprio
brutto questo sconosciuto esserino, ma era vivo e bisognava far sì che
continuasse a vivere. Con gli strumenti disponibili, una siringa e una pera
schiacciata, mio figlio Francesco tentò di alimentarlo e pian piano qualcosa
l’animaletto riuscì a mandar giù. Che bello! Forse c’era qualche possibilità di
non farlo morire. E ognuno metteva in azione la sua fantasia pur di far
ingoiare all’uccellino qualche goccia di frutta.
¢ Ma chi può valutare la stupidità e
l’incoerenza dell’uomo? Quante attenzioni per una decina di grammi di pelle e
piume, per un quasi-uccellino e poi nei confronti dei bambini, dei giovani, delle
donne, degli anziani, nei confronti dell’essere umano quali disattenzioni,
quali violenze, quali massacri…
La
bestiolina mangiava con avidità e la dieta doveva essere indovinata, giacché
cresceva a vista d’occhio. Il becco, in particolare. Ma di quale specie di
volatile si trattava? Grande dilemma. Occorreva conoscere l’identità. Ad ogni
ospite la fatidica domanda: “Ma secondo te, è un merlo o una gazza?” Insostenibile necessità di sapere chi fosse il volatile.
Sapendo di quale specie si trattava, si sarebbe potuto alimentare nel modo più
adeguato e gli si sarebbe potuto creare uno spazio idoneo, nel rispetto delle esigenze
della sua natura.
¢ L’esperienza mostra che per far crescere
qualcosa devi sapere di che pianta o di che animale si tratta, altrimenti non
si vedranno né fiori né frutti, né la bestia di cui ti prendi cura godrà una
buona salute. Ciascuno va rispettato per quello che è, e deve essere aiutato a
crescere secondo le proprie caratteristiche originarie. Non puoi dare acqua
ogni giorno ad una pianta grassa o una tazza di latte caldo ad una tartaruga.
Sarebbe un fallimento. E non sarà lo stesso anche per le persone? Ma quanto ci
impegniamo per conoscere la nostra identità? E quanta attenzione poniamo nel
conoscere gli altri, per aiutarli ad essere sempre più se stessi?
Il piccolo uccello cominciava a prendere forma, la coda si
allungava e il becco ancora di più. Una sera, tutta orgogliosa per la mia
bravura nel farlo mangiare, mi vantavo davanti a mio figlio: “Guarda, guarda come mangia!” Ah, ho dimenticato di specificare che, dopo la
siringa, avevo escogitato di dargli il cibo con una forchettina di plastica,
quella a due denti che si usa per le olive. Faceva un po’ ridere questa
stranezza: un uccello che mangia con la forchetta!
¢ Certo siamo davvero
stravaganti. Non ci stupiamo più di nulla, ci siamo abituati a tutto. Quante e
quali stranezze facciamo e diciamo ogni giorno, vediamo e ascoltiamo intorno a
noi! Non ci stupiamo se per far carriera o guadagnare di più, c’è chi è capace
di calpestare anche i principi più elementari del buon senso. Non ci stupisce
un politico che mangia i soldi dei poveri o chi decide di fare la guerra per
stabilire la pace nel mondo.
Ma
ci sembra strano un uccellino che
mangia con la forchetta.
Ritorniamo alla cena. Continuavo a dire: «Guarda come mangia!», rimpinzando il mio povero uccelletto e mi vantavo del
fatto che si alimentava bene, che mi obbediva, che era bravo e io più brava di
lui nel farlo mangiare così abbondantemente. Distratta dall’essenziale, non mi
rendevo conto che l’animaletto stava soffocando. Così ingozzato, respirava
appena: il becco semiaperto e l’occhio tremolante, era proprio una scenetta da
schianto. Subito Francesco cominciò a massaggiarlo in modo delicato ma
energico, per agevolare la discesa del cibo. La bestiolina tremava ed emetteva
un pigolio da far lacrimare le pietre. Pian piano la situazione si andò
normalizzando e, dopo qualche ora, l’uccellino recuperò le sue condizioni normali.
¢ Spesso si comincia ad agire per fare qualcosa
di buono, ma poi ci si distrae dall’obiettivo principale. Invece del bene
dell’altro, ecco che si cade nella vanagloria. Ma guarda come sono bravo! e che
cosa so fare! e come lo faccio io non lo fa nessuno! E, al posto di
risultati utili, si rischia di provocare
danno.
Nei
giorni seguenti furono molti a pensare che potesse trattarsi di un merlo. E
cominciarono i sogni: il merlo canta magnificamente, lo puoi tenere libero, è
una presenza gradevole in casa, etc.
Ma,
oltre i sogni, c’era l’impegno ad aiutare il merlo a crescere bene: pulisci la
gabbia, cambia l’acqua, metti il cibo e ogni giorno tenta un nuovo sapore,
perché il merlo trovi qualcosa di suo gusto. E poi un fischio, sempre
uguale, perché possa riconoscerlo. E il nome, pronunciato con dolcezza: Cioppi, abbreviativo di Cippotto. “Cioppi, Cioppi,
come sei bello!”
Tutto
funzionava a meraviglia. Il merlo sembrava sentire il fischio, rispondeva con
un suono sempre uguale quando sentiva la mia voce, mangiava e saltellava
contento tra le sbarre. Ma non erano certo queste le cure più importanti. Le
difficoltà “educative” dovevano ancora iniziare.
¢ Anche con le persone
spesso si fa così, figli o amici che siano: ci si ubriaca della bellezza di
percepire che si è stabilito un legame, che l’altro ti riconosce, che esisti
per qualcuno e ti sembra che vada tutto a meraviglia. Ma se è vero che la
bellezza e il gusto della vita vanno assaporati nell’istante in cui ci sei
dentro, è anche vero che non si può perdere di vista, nella gioia dell’istante,
quel che sarà domani. Un rapporto vero con
un altro, chiunque sia, non consiste nel succhiare avidamente tutto il piacere
che può donarmi. Significa che io divento responsabile dell’altro. L’altro non
esiste per il mio gioco o piacere e io devo stargli accanto perché lui sia
sempre più se stesso e io diventi sempre più vera.
Dunque
Cippotto cresceva bene. Cominciai a tirarlo fuori dalla gabbia. Saltellava
allegramente, poi scivolava sul pavimento, ma subito riprendeva a zampettare;
se lo tenevo fra le mani, si accucciava come una paperella. Bisogno di
movimento, ma anche del nido, del calore. Necessità di sentirsi protetto.
Cominciai
ad alternare i tempi di gabbia e quelli di libertà. La gabbia serviva per la
notte e per qualche ora durante il giorno, quando mangiava e si riposava. Il
resto della giornata lo trascorreva girando per casa. Si era subito scelto i
suoi angolini preferiti: una grande cesta con pigne e tronchetti, i piedi del
tavolo e il vimini delle sedie per riposarsi. Al mio richiamo, subito intonava
il verso di risposta; io capivo dove si era posizionato, lo prendevo tra le
mani e lui si abbandonava, con l’occhietto semichiuso e il corpicino rilassato.
La
caratteristica degli uccelli è il volo. Appena qualcuno si avvicina è immediato
il colpo d’ali e si crea la distanza. Anche i volatili più domestici, nel bosco
sono difficilmente avvicinabili. In modo a noi ignoto, anche se sempre più
avanzano gli studi etologici, gli uccelli non si fanno avvicinare dall’uomo.
L’uomo tra le mani tiene il fucile, spara, e non si sa bene come, ma gli
uccelli, anche quelli appena nati, lo sanno. Chissà se dopo qualche decennio
che la caccia sarà severamente punita e/o abolita, – ma questo avverrà mai? –
anche i volatili cambieranno i loro comportamenti. Per il momento, appena tu
cammini nel bosco, se c’è un uccello che beccheggia fra gli arbusti, al solo
passo umano spicca il volo. Ma non sempre. Già, perché come afferma il noto
detto, 'l’eccezione conferma la regola'. E Cippotto era l’eccezione.
¢ La
paura può essere vinta solo dalla tenerezza.
Cippo
stava dunque con noi, si lasciava accarezzare come un cucciolotto, si riposava
tra le mie mani, e sembrava che stesse proprio a suo agio tra i mobili, i
cuscini e gli amici che, pur vedendo coi loro occhi, rimanevano increduli e,
per giustificare la loro incapacità di stupirsi, continuavano a dirmi: “Ma
chi te lo fa fare, tanto prima o dopo volerà via”.
¢ Nelle scelte e nei
comportamenti non farti guidare soltanto dalla ragione e dal cosiddetto buon
senso. Spesso le azioni più belle nascono dalla gratuità e un atto gratuito,
che nulla chiede in contraccambio, che rischia di poter essere frainteso, è
spesso un gesto incomprensibile per la logica umana, che è una logica di mercato.
Ma un atto gratuito è poesia, è energia liberante.
Dunque mi si avvertiva che Cippotto sarebbe volato via, come
se questa fosse una giustificazione per non prendersene cura. Ma perché, le
cose o le persone di cui ci si prende cura – a parte Dio – forse prima o dopo
non volano via?
¢ Pensa a un ibiscous.
Se segui la crescita della pianta, ti accorgerai che occorrono circa venti giorni perché dal
bocciolo appena formato delicatamente si dischiuda il fiore ed esploda il
fascino del colore, forma splendente, perfetta. Ma il fiore dell’ibiscous non
dura che un giorno. Forse che per questo non vale la pena di irrigare
quotidianamente la pianta?
La cosa più bella – e anche più difficile da condividere – è
che, proprio perché si trattava di un uccello, chiamato al volo e alla libertà, proprio per questo era più
problematico, ma insieme più affascinante, stargli accanto e aiutarlo a
rendersi indipendente.
¢ È molto facile cadere
nell’euforia del possesso dell’altro, ubriacarsi del gusto di sentirsi
insostituibile, senza rendersi conto che questo equivale ad impedire all’altro
di volare. Quanto
è difficile accompagnare altri a crescere con la chiarezza di non tradire mai
la loro identità per una manciata di pseudobenessere!
Occorre
essere davvero umili e liberi perché, intorno a te, altri crescano come persone
autenticamente mature.
Cippotto
girava per casa, trotterellava, allegramente. Era facile cadere nella trappola
dell’addomesticamento: sei carino, tanto carino, ti tengo con me, ti do il cibo
che ti piace, ti preparo un nido super, posso dire agli amici: guarda quant’è
simpatico il 'mio' merlo, e… volare, addioooooo!
Dunque mi impegnavo
ogni giorno per farlo saltare su un ramo su cui stava volentieri, lo sollevavo
e lo abbassavo velocemente per qualche minuto, allo scopo di stimolare il movimento
delle ali.
¢
Forse troppo spesso ci dimentichiamo che anche
noi, uomini e donne, credenti e non, siamo chiamati a volare, con le ali della
giustizia, della pace e della libertà dell’amore, e anche quelle ali bisogna
allenare ogni giorno.
Dopo
le prime settimane, timidamente cominciai a portare Cippotto in giardino. Ma
quello, appena capiva che stavo per prenderlo e portarlo fuori, si nascondeva
come meglio poteva, per evitare di uscire. Comunque lo scovavo sempre, perché
conoscevo i suoi nascondigli. Lo prendevo delicatamente e lo lasciavo sui
gradini della scala, con qualche saporito bocconcino. Ma Cippo preferiva stare
in casa. Saltellava qua e là qualche istante e poi via, d'un guizzo, dentro
casa. Negli ultimi tempi fui costretta a chiudere la porta, per impedirgli di
entrare e per farlo stare in giardino più a lungo. Era proprio divertente
guardare da fuori la scenetta: un forse-merlo ben piazzato sulle sue lunghe
zampette dietro la porta.
Un
merlo da guardia.
Per
farlo stare in giardino più a lungo e farlo abituare al contatto col suo
habitat naturale, uscivo da casa chiudendo la porta, lo mettevo sul terreno che
mi sembrava più umido e ricco di insetti e vermicelli e lo lasciavo, o meglio
gli facevo credere che lo lasciavo, perché avevo un punto d’osservazione da cui
lui non poteva vedermi. Mi era utile scrutare i suoi movimenti, il suo sguardo
furbo verso la porta, i passetti veloci e la gioia del bagnetto. Già, perché
avevo osservato che si divertiva molto con l’acqua. E così gli tenevo pronta
una ciotola, dove sguazzava allegramente. Era uno spettacolo, soprattutto i
movimenti velocissimi con cui eliminava l'acqua dalle piume. Ma il suo ideale
era fare il bagno e poi rientrare ad asciugarsi sul tappeto. Furbo, Cippotto.
¢ Non
si tratta solo di conoscere quale sia il bene dell’altro, ma di essere perseveranti
nel volerlo perseguire, e questo, di solito implica incomprensioni e fatica. E
una buona dose di attenzione e di pazienza.
Sempre più diventava importante per la dieta sapere se Cioppi
fosse davvero un merlo.
Anche se allegrotto, gli mancava
del tutto il piumaggio sotto il petto
e cominciava a nascere qualche perplessità. Fu portato da un
competente, il quale disse che doveva trattarsi di un tordo. Non più merlo, ma
tordo. Non cambiava molto per me. Fu invece importante sapere che lo stato di
salute era eccellente e che era ancora molto piccolo, ecco perché era ancora
così spelacchiato: non aveva ancora neppure tutte le piume da latte.
Una
sera Cippo non rispose al solito fischio. Stava facendo buio e di solito, a
quell’ora, lo portavo in gabbia. Bell’affare. Di giorno mi guizzava davanti per
infilarsi in casa, di sera si nascondeva e non rispondeva per restare fuori. Fu
una notte in cui sembrava che tutti i rapaci si fossero dati appuntamento nei
pressi del nostro giardino: civette, gufi, corvi, un bel concerto, reso ancora
più animato da una incessante danza di pipistrelli. E per finire la giornata,
mio marito, con sconvolgente naturalezza, prima di chiudere la porta, dopo il
mio ultimo mesto richiamo, annunciò con vigore: “Maria Antonietta, c’è un gattone, enorme!”
¢ Essendo
ogni persona assolutamente unica, non si possono indicare comportamenti che si
adattino a tutti con la stessa efficacia. Ma taluni principi sono certamente
sempre validi per tutti e in tutte le circostanze. Per esempio: quando dici una
parola o compi un gesto non dimenticare che quella parola e quel gesto qualcosa
produrranno, di bene o di male. E dunque bisognerebbe
vigilare di più sulle proprie parole e sui propri silenzi, sulle azioni e sulle
omissioni.
L’indomani
all’alba il cielo era stupendo. Pian piano il bosco cominciava a svegliarsi, ma
la prima voce forse fu la mia: fischiai e poi ancora. Subito sentii il verso di
Cippo, ma dov’era? Lo chiamai per nome e lo vidi zampettare in giardino. Con un
colpo d’ali mi raggiunse sul balcone. Ce l’aveva fatta, che bello!
Non
pensai certo di rimproverarlo. Ero troppo contenta.
¢ Se
non prevale la fredda logica, ciò che conta non è quel che hai fatto, ma quel che
sei, ora.
Cominciai
a capire che il tordo doveva restare nel bosco, che era una follia pensare di
rinchiuderlo in una voliera, quand’anche fosse stata d’oro. Che ero
responsabile di quel tordo e che dovevo aiutarlo a diventare un tordo e non un
soprammobile originale con cui giocherellare.
Non
si trattava più solo di alimentarlo, ma di fargli gustare la bellezza di volare
e quindi di stare lontano da casa e soprattutto da me, che ero diventata per
lui mamma e papà, nido e cielo. Dovevo farlo, anche se con timore. Così lo lasciavo in giardino, ogni giorno un po’ più
lontano, gli mettevo fra le zolle qualche boccone di suo gradimento e mi
allontanavo, per poi chiamarlo dopo un po’ e fargli capire che non l’avevo
abbandonato. Mi rispondeva immediatamente e io riconoscevo il suo verso a
distanza ed era un’esperienza indicibile sapere che c’era un esserino più
piccolo della mia mano che, in mezzo al bosco, sapeva che qualcuno lo chiamava.
E che, al mio richiamo, rispondeva.
¢ L’importanza comunicativa
della voce. La voce, come lo sguardo e le mani, difficilmente può essere
mascherata. La voce traduce quel che si è nel profondo.
E così gli permettevo, durante la giornata, di passare più
tempo dentro casa, per farlo sentire sicuro e poi, nel pomeriggio, evitavo di
chiamarlo, lasciando che fosse lui a decidere se restare nel cestone delle
pigne o se trascorrere fuori la notte. Cippotto restava quasi sempre fuori e
poi al mattino, appena sentiva la mia voce, con un guizzo giungeva sulla mia
spalla. Gioia profonda di sentirlo libero e poterlo comunque coccolare. Gli
davo abbondantemente da mangiare perché, nel caso non tornasse, fosse in grado
di sopravvivere. I primi giorni mangiava con voracità, perché non si era dato da fare, ma poi pian piano, dopo i primi pinoli, di cui era ghiottissimo,
volava dentro casa. Cominciava a procurarsi il cibo da solo.
Ci
fu una notte tempestosa, fulmini e acqua da diluvio. Ma Cippo l’indomani stava
benissimo, era anche asciutto. Adesso poteva andare, mi sentivo più sicura. Ma
trascorse con noi ancora qualche giorno, con le solite abitudini. Poi una
mattina, quando lo chiamai, furono altri uccelli a rispondermi, ma il suo verso
non lo sentii.
Mi
dispiacque, ma era come se già lo sapessi. Quella notte infatti avevo ricevuto
una telefonata con la quale mi veniva comunicata la nascita di un bambino, il
figlio di una coppia di carissimi amici.
Emanuele era nato,
Cippotto era volato.
E a
questo punto potrebbe iniziare un’altra storia, perché i due eventi non sono
slegati. Una storia legata all’amico della foto e ai bambini, alle nascite e ai
battesimi. Ma sarà per un’altra volta.
(Non
posso non rivelarvi quel che è avvenuto dopo. I miei amici, che non sapevano
nulla della storia del tordo, mi hanno fatto un dono: io oggi sono la madrina
di Emanuele… Secondo voi, perché?)
* * *
Ogni
volta che udrò un cinguettio, non sarà più solo un canto melodioso,
affascinante, ma comunque anonimo. Quel cinguettio sarà per me la voce del
tordo, a cui ho dato il cibo e la libertà.
Un
piccolo tordo che mi ha regalato tanti istanti di gioco sereno e di profonda
letizia.
Un ciuffo di piume, con
la tenerezza del cielo dentro.
*